Sudan: due anni di guerra e una crisi senza fine

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Tra bombardamenti, sfollamenti, massacri e carestia, il nodo cruciale degli aiuti umanitari per la popolazione stremata. In 24 mesi il conflitto tra esercito e milizie RSF ha provocato la più grave emergenza umanitaria del pianeta e spazzato via ogni speranza di transizione democratica. Intanto nuove milizie armate rischiano di frammentare ulteriormente il paese. Una conferenza internazionale a Londra cerca soluzioni, ma le parti sudanesi restano escluse. Ne riferisce Bruna Sironi su Nigrizia.

Era il 15 aprile di due anni fa quando l’esercito nazionale (SAF) e le Forze di supporto rapido (RSF) si scontrarono nelle strade di Khartoum, dando inizio ad un conflitto che ha devastato il Sudan e ha innescato la più grave crisi umanitaria dei nostri giorni. Un conflitto di cui non si intravede ancora la fine.

Fino al giorno prima i due contendenti erano alleati in una giunta militare che aveva destituito, con un colpo di stato, un governo transitorio a guida civile che avrebbe dovuto guidare il paese verso un modello di governance democratica.

Fino a pochi giorni prima la giunta militare, che non era mai riuscita a formare un governo, stava trattando con le forze politiche e la società civile per la formazione di un esecutivo accettabile per il paese.

Gli scontri hanno spazzato via ogni tentativo di uscire dalla crisi politicamente e ancora oggi, a due anni di distanza, la sola voce che arriva dal Sudan è quella delle armi.

Il controcanto è quello dei lamenti della popolazione presa in ostaggio dai due belligeranti e vittima di attacchi indiscriminati alle zone urbane e perfino ai campi profughi.

Massacri e pulizia etnica

È di pochi giorni fa uno tra i più orrendi crimini del conflitto, perpetrato dalle RSF, che ha distrutto i campi di Zamzam e Abu Shouk nel Darfur settentrionale, dove risiedevano centinaia di migliaia di civili fin dal primo conflitto nella regione, all’inizio degli anni duemila. I morti, soprattutto donne e bambini, si contano a centinaia, i feriti a migliaia.

Non sono mancate operazioni di pulizia etnica e di genocidio. Le più drammatiche nel Darfur occidentale dove è stato decimato il gruppo etnico dei masalit.

Ma gravissimi episodi sono stati consumati anche nello stato di Gezira, Sudan centrale, e nella capitale Khartoum, dove decine di persone sono rimaste vittime di vendette perpetrate dall’esercito contro supposti sostenitori delle RSF.

Emergenza fame

Intanto la situazione umanitaria è definita catastrofica dalle agenzie competenti dell’ONU che hanno già dichiarato lo stato di carestia in 10 zone del paese. Una decisione che implica un processo di valutazione prudente e complesso e che viene presa solo quando sono documentate morti per fame quotidiane.  

Gli aiuti alimentari vengono bloccati da pratiche burocratiche e veti incrociati, i convogli razziati, gli operatori umanitari intimiditi e non raramente attaccati, i volontari sudanesi arrestati. Crimini di cui i due belligeranti si accusano reciprocamente.

La produzione agricola è minima. Devastata dal conflitto la più importante azienda agricola del paese, quella di Gezira, praticamente improduttiva da due anni.

Il nodo degli aiuti umanitari

Oggi, 15 aprile, si apre a Londra una conferenza internazionale ospitata dal governo britannico, cui parteciperanno la Commissione UE, diversi paesi europei, ma non l’Italia, l’ONU, l’Unione Africana e i maggiori donatori per costituire un fondo per le operazioni umanitarie in Sudan in un momento particolarmente critico per il lavoro di supporto alla popolazione civile in contesti di crisi, dopo la chiusura improvvisa delle operazioni di USAID.

Nessuna istituzione o gruppo sudanese è stato invitato. Intervistata da Radio Dabanga, la baronessa Chapman, ministra per lo Sviluppo internazionale del governo di Londra, ha precisato: “In questa conferenza non abbiamo previsto di includere le parti sudanesi perché crediamo che non ci farebbero fare passi avanti in questo momento”.

Vista la reazione del facente funzione di ministro degli Esteri della giunta militare che governa da Port Sudan, non sembra avere tutti i torti. In una conferenza stampa convocata ieri per i maggiori mezzi d’informazione britannici, ha criticato ferocemente l’occasione.

Ha fornito una visone globale della drammatica situazione del paese, attribuendone tutte le responsabilità alle RSF, accusate anche di farsi scudo dei civili. È la stessa orribile “giustificazione” del governo israeliano per i suoi attacchi a strutture civili di cruciale importanza a Gaza.

È il motivo per cui i corridoi umanitari nelle zone controllate dalle RSF, quelle dove si muore di fame, non hanno funzionato se non episodicamente. Ha anche ribadito che il suo governo è pronto ad un cessate il fuoco, a patto che le RSF depongano le armi, o poco meno.

Appello delle forze civili pro-democrazia

Approccio ben diverso alla conferenza quello di Abdalla Hamdok, ex primo ministro, rovesciato dal colpo di stato militare del 25 ottobre 2021 e presidente di Smoud (Resilienza) la più importante rete sudanese contro la guerra.

In un articolo pubblicato sul Financial Times ha ribadito che non c’è soluzione militare alla crisi del paese e ha sottolineato che solo un governo democratico a guida civile può prevenire la disintegrazione del paese.

Ha proposto che venga concordato un “London Action Plan” in cui venga incaricata una leadership civile di lavorare per la pace del paese.

Ha chiesto inoltre la costituzione di un gruppo di alto livello incaricato di coordinare le iniziative di pace. Ma prima di tutto, ha sottolineato, è necessario un cessate il fuoco umanitario per raggiungere tutte le persone in pericolo per la fame ovunque nel paese.

Nuove milizie e rischio frammentazione

Se sul piano umanitario la situazione è molto difficile e su quello politico molto complessa, è dal piano militare che vengono le maggiori preoccupazioni per il futuro del paese.

In un articolo pubblicato su The Conversation, periodico online su cui scrivono ricercatori ed esperti di autorevoli università sudafricane, il conflitto sudanese non è alla fine, anche perché i gruppi che si combattono sul terreno si stanno moltiplicando: Sudan’s war isn’t nearly over – armed civilian groups are rising.

L’autore, Mohamed Saad, ricercatore alla Charles University, dice che il conflitto si è trasformato. “Quella che è cominciata come una lotta di potere tra due fazioni militari si sta ora trasformando in un conflitto molto più ampio, caratterizzato da una frammentazione che si sta approfondendo e il sorgere di gruppi di civili armati. Nel paese stanno emergendo nuove milizie, molte formate da civili che prima non combattevano”.

La chiamata ai civili ad armarsi  è responsabilità dell’esercito. La risposta è probabilmente andata oltre le previsioni. All’inizio erano gruppi di autodifesa. Ora alcuni combattono a fianco dell’esercito, altri si sono allineati ad altre fazioni combattenti.

Altri ancora hanno connotazioni etniche e non mancano quelli che cercano potere e risorse. Una frammentazione che ha già portato al risultato di tanti conflitti locali nel contesto del conflitto nazionale più ampio.

Tra i gruppi più importanti, allineato all’esercito contro le RSF, l’autore segnala la El Baraa Ibn Malik Brigade, secondo alcuni rapporti emanazione di gruppi islamisti, compresi quelli che hanno sostenuto il  regime del deposto presidente Omar al-Bashir.   

Che cosa potrebbe succedere in una simile situazione?

“Se non si porrà un freno, questi gruppi potrebbero evolvere e stabilire zone gestite di fatto da signori della guerra dove comandanti locali esercitano un potere incontrollato. Questo potrebbe minare ogni prospettiva di una governance centralizzata in Sudan”.

Una conclusione dell’articolo molto preoccupante, davvero.

Sudan: interessi contrapposti, pace lontana

Il Regno Unito tenta coordinare un blocco internazionale di pressione politica sulle parti in conflitto, ma lo scontro tra potenze arabe è palese. “Censurato” il rapporto ONU che accusava gli Emirati di sostegno militare alle RSF. Il fallimento della conferenza di Londra nel creare un fronte unito per la pace in Sudan mette in luce il ruolo ambiguo degli Emirati Arabi Uniti. The Guardian denuncia: “dal rapporto degli esperti al Consiglio di sicurezza spariti i riferimenti a decine di voli cargo emiratini diretti in Ciad e a rotte terrestri potenzialmente utilizzate per il trasporto di armi oltreconfine”. Questo il resoconto di Nigrizia.

Quanto siano alti e contrapposti gli interessi geopolitici internazionali in gioco nella guerra che da due anni devasta il Sudan, lo rivela l’esito della Conferenza svolta il 15 aprile a Londra per tentare di istituire un blocco di coordinamento politico, sotto l’egida dell’Unione Africana, capace di spingere le due parti in conflitto – l’esercito (SAF) e le milizie Forze di supporto rapido (RSF) – verso una sempre più improbabile trattativa di pace.

Al termine dell’intensa giornata, infatti, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno rifiutato di apporre la loro firma a una dichiarazione unificata, rivelando così per la prima volta chiaramente le posizioni dei tre stati arabi riguardo alle forze in campo in Sudan.

La Conferenza si è quindi conclusa con una dichiarazione congiunta dei ministri degli Esteri di Regno Unito, Francia, Germania, Unione Africana e UE nella quale si parla, tra l’altro, di “respingere tutte le attività, comprese le interferenze esterne, che accrescono le tensioni o prolungano o favoriscono i combattimenti”.

A contrapporsi sono Egitto e Arabia Saudita, che sostengono più o meno apertamente e anche militarmente le Forze armate sudanesi, e gli Emirati, che appoggiano fin dall’avvio del conflitto le RSF attraverso il vicino Ciad.

Un supporto che Abu Dhabi ha finora sempre decisamente negato, ma che è documentato da autorevoli inchieste giornalistiche (New York Times e Wall Street Journal, tra i primi), del governo statunitense (che ha imposto anche sanzioni mirate a entità riconducibili alle RSF con sede negli Emirati) e da rapporti di esperti delle Nazioni Unite.

Sull’ultimo di questi, aleggia però il sospetto di azioni di lobbing da parte di Abu Dhabi.

Si tratta di un rapporto interno contrassegnato come altamente riservato, redatto da un gruppo di cinque esperti, completato a novembre 2024 e inviato al Comitato per le sanzioni al Sudan del Consiglio di sicurezza ONU.

Nel documento, descritto in modo dettagliato dal quotidiano britannico The Guardian, che ha potuto visionarlo, si documenta “un modello coerente di voli cargo di Ilyushin Il-76TD (almeno 24 tracciati lo scorso anno, ndr) provenienti dagli Emirati Arabi Uniti” verso il Ciad, dove gli esperti hanno identificato almeno tre rotte terrestri potenzialmente utilizzate per il trasporto di armi oltreconfine, nella regione sudanese del Darfur, sottoposta a un embargo sull’importazione di armi e teatro di massacri su base etnica da parte delle RSF.

Nel rapporto di 14 pagine si parla di una regolarità di voli tali da aver creato di fatto un “nuovo ponte aereo regionale”. I ricercatori ONU hanno osservano inoltre che i cargo sparivano dai tracciati per “segmenti cruciali” del volo, “sollevando dubbi su possibili operazioni segrete”.

Nonostante nel rapporto si evidenzi che alcuni dei voli identificati erano collegati ad operatori precedentemente coinvolti in “logistica militare e trasferimenti illeciti di armi”, gli stessi esperti sostengono però di non essere riusciti a individuare prove che trasportassero materiale bellico.

Il punto decisivo è proprio questo, tanto che, come fa notare ancora The Guardian, non solo nel rapporto finale di 39 pagine, la cui pubblicazione è prevista a giorni, i numerosi voli cargo emiratini tracciati, diretti in Ciad, non sarebbero menzionati, ma dal report sarebbe sparito addirittura qualsiasi riferimento agli Emirati Arabi Uniti, se non in relazione ai colloqui di pace.

Insomma, “l’ultimo rapporto del panel di esperti delle Nazioni Unite chiarisce che non ci sono prove concrete che gli Emirati Arabi Uniti abbiano fornito alcun supporto alle RSF o siano coinvolti nel conflitto”. A precisarlo è proprio una puntuale nota di Abu Dhabi, nella quale si ribadisce che “le accuse contro di noi non hanno raggiunto la soglia probatoria del panel. I fatti parlano da soli”.

Un messaggio che sembra indirizzato direttamente all’Aja, dove la Corte Internazionale di Giustizia sta esaminando la denuncia inoltrata dal regime militare sudanese in cui si accusano gli Emirati di “complicità nel genocidio” in Darfur proprio per il loro sostegno militare e logistico alle RSF.

[Fonte Nigrizia; Foto; UN News – The United Nations]