I BRICS sono ancora in cerca di autore, magari sarà proprio Trump

Il presidente minaccia il blocco con dazi aggiuntivi del 10% dopo le condanne degli attacchi contro l’Iran e di Israele a Gaza. Il gruppo manca di coesione a livello politico, ma gli attacchi potrebbero aiutare a trovarla. Ne riferisce Brando Ricci su Nigrizia, la rivista dei Missionari Comboniani.
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump minaccia misure punitive contro i BRICS, il blocco di 10 economie emergenti e in via di sviluppo guidato da Russia e Cina che si è riunito in Brasile ieri e oggi, 6 e 7 luglio.
Mesi fa Washington ha lanciato una aggressiva politica commerciale a colpi di dazi alle importazioni contro decine di paesi in tutto il mondo. Adesso Trump avverte di un possibile aumento del 10% su questi tributi contro tutti i paesi che si «allineino» a non meglio specificate «politiche anti-americane dei BRICS».
Quel che è certo è che nel corso del suo summit il blocco ha criticato Washington e Tel Aviv per i loro attacchi in Iran e a Gaza e denunciato i danni prodotti dalle politiche che prevedono «dazi unilaterali», senza però citare espressamente gli Usa.
Gli avvisi lanciati da Trump potrebbero avere effetti molto diversi: affondare il colpo di grazia su quello che appare a tutti gli effetti un “gigante dai piedi d’argilla” o forse, al contrario, indicare una direzione comune a un gruppo di paesi che da solo fatica a trovarla. Meglio andare per ordine.
Dazi: la cronistoria
A inizio aprile l’amministrazione Usa ha annunciato una serie di dazi “reciproci” all’indirizzo di decine di di paesi. Il provvedimento rientra in pieno nella politica “America First” del capo di stato Usa. La misura vorrebbe innescare una nuova fase di crescita per l’economia statunitense e fare giustizia in un sistema economico ritenuto dannoso per gli Usa, sfruttati per la loro ricchezza e la loro potenza economica e militare dal resto del mondo, nella visione del presidente (molto poco supportata dai fatti, in realtà).
I dazi sono stati calcolati con una complessa equazione relativa alla bilancia commerciale con gli Usa e sono in realtà ben poco reciproci, come hanno fatto notare esperti concordanti. Diversi i paesi africani interessati dalla misura. A partire da due dei più colpiti, il piccolo Lesotho (50%) e il Madagascar (47%). Attaccate anche due delle maggiori economie del continente, Sudafrica (30%) e Nigeria (14%).
Pochi giorni dopo l’annuncio shock, Trump ha sospeso per 90 giorni l’entrata in vigore dei dazi congelandoli al 10% (eccetto che per la Cina). I tre mesi di tempo sarebbero dovuti servire per firmare nuovi accordi più favorevoli agli Usa con i paesi interessati. In assenza di un’intesa, l’entità del tributo sarebbe tornata alla quota indicata il giorno del primo annuncio.
I 90 giorni scadono mercoledì 9 luglio. Trump ha annunciato a più riprese decine se non centinaia di accordi, senza dare specifiche di sorta. Stando a quanto riportano i media internazionali, a oggi le uniche intese note sono con Cina, Gran Bretagna e Vietnam.
Il presidente Usa ha fatto sapere che entro mercoledì i partner coinvolti verranno aggiornati con tutte le novità relative ai dazi , che entreranno poi in vigore il 1 agosto, al termine di un’ulteriore finestra per possibili negoziati di tre settimane. Una nuova data che ha nuovamente gettato nella confusione mercati, media e governi di mezzo mondo.
“Antiamericani”
E in questo contesto che Trump, sul suo social Truth, ha sentenziato: «Qualsiasi paese che si allinei alle politiche antiamericane dei BRICS sarà oggetto a un’ulteriore dazio del 10%» Il presidente Usa ha aggiunto: «Non ci saranno eccezioni a questa politica».
La dichiarazione del capo della Casa Bianca non è stata accolta bene dall’omologo brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva. Sollecitato dai giornalisti sull’uscita di Trump, Lula ha affermato che «il mondo è cambiato. Non vogliamo imperatori».
Chiaro anche il capo di stato sudafricano Cyril Ramaphosa, che ha definito «deludente» il fatto che ci sia chi «vuole punire» una «manifestazione collettiva così positiva come quella dei BRICS».
Non è la prima volta che Trump attacca il blocco, costituito da cinque fondatori – Brasile, Russia, Cina, India e poi il Sudafrica, che si è in realtà unito un anno dopo la nascita del gruppo, nel 2010 – ed esteso nel 2023 anche a Egitto, Etiopia, Indonesia, Iran, Emirati Arabi Uniti e, ancora ufficiosamente in realtà, Arabia Saudita.
Negli ultimi mesi il gruppo ha anche concesso un’adesione di secondo livello a Bielorussia, Bolivia, Cuba, Kazakistan, Malesia, Nigeria, Thailandia, Uganda, Uzbekistan e Vietnam.
Nei suoi primi strali, fra novembre e febbraio scorsi, Trump aveva attaccato i tentativi dei BRICS di diminuire la dipendenza dell’economia mondiale dal dollaro, valuta nella quale avvengono circa l’80% delle transazioni commerciali a livello globale. Il presidente aveva anche minacciato dazi del «100%» contro i paesi che avessero provato a sostituire la moneta Usa come punto di riferimento del commercio internazionale.
La cosiddetta “dedolarizzazione” è una delle istanze chiave del blocco di paesi emergenti e in via di sviluppo. Il concetto è stato anche riaffermato durante il summit di questi giorni in Brasile.
L’affrancamento dalla moneta Usa, o addirittura la nascita di una nuova valuta comune del blocco, anche se la proposta non piace a diversi stati membri ed è in fase a dir poco embrionale, è da collocare in un più ampio processo di ridistribuzione del potere all’interno del sistema finanziario globale, percepito come ancora troppo a favore dell’Occidente.
In questo senso i Brics propongono anche un ripensamento totale degli equilibri all’interno delle istituzioni di Bretton Woods (Banca Mondiale e Fondo monetario internazionale) e si prefiggono anche un loro parziale superamento.
Non a caso, in ambito BRICS sono stati istituiti una nuova banca multilaterale di sviluppo, la New Development Bank (NDB), e il Contingent Reserve Arrangement (CRA), uno strumento che può sostenere gli stati membri con iniezioni di liquidità.
Le ragioni dell’attacco di Trump
Il nuovo attacco di Trump sembra essere motivato dall’ultima postura assunta dai BRICS in Brasile. In una dichiarazione congiunta, i 10 paesi hanno denunciato i recenti raid aerei degli Stati Uniti e di Israele contro lo stato membro Iran come «una violazione del diritto internazionale». Gli attacchi sono avvenuti nell’ambito dell’escalation militare fra Tel Aviv e Teheran che prosegue ormai da mesi.
Nel testo i BRICS hanno anche chiesto il ritiro di Israele di Gaza e dai Territori palestinesi occupati in Cisgiordania, riaffermando la piena appartenenza di queste due aree al futuro stato di Palestina e dicendosi «preoccupati» dagli attacchi e dal blocco agli aiuti umanitari imposto da Tel Aviv.
Il contesto è quello dell’offensiva militare di carattere genocidario che Israele sta conducendo a Gaza da oltre un anno e mezzo, da quando cioè il partito-milizia palestinese di Hamas ha lanciato un attacco in territorio israeliano uccidendo oltre 1.100 persone, di cui la maggior parte civili. Dall’inizio delle ostilità, le forze armate israeliane hanno ucciso oltre 62mila persone palestinesi, di fatto distruggendo la quasi totalità del territorio di Gaza, e sospeso per mesi l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia.
Utile notare che in modo in realtà abbastanza paradossale, vista la centralità delle spese militari per alcuni degli stati membri, fra i maggiori investitori in difesa al mondo, i BRICS si sono definiti «allarmati» dall’«aumento critico della spesa militare globale» che si osserva da diverso tempo a questa parte.
Un probabile riferimento, anche qui, alla recente decisione dei paesi Nato di portare al 5% del Pil le spese per la difesa, in accordo con una richiesta partita direttamente dall’amministrazione Trump.
I paesi membri non hanno inoltre condannato l’invasione russa dell’Ucraina, cominciata nel febbraio 2022, sanzionando al contrario gli attacchi ucraini contro infrastrutture russe che sono avvenuti negli ultimi mesi.
In una dichiarazione separata firmata dai ministri delle finanze e i governatori delle banche centrali invece, i BRICS si sono detti «seriamente preoccupati» dalla recente imposizione di «dazi unilaterali» che «distorcono il commercio e sono incompatibili con le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio».
Quali gli effetti?
Ma che effetto potrebbero avere gli attacchi di Trump sul blocco? Per capirlo bisogna prendere in considerazione diversi elementi.
Innanzitutto, più di un membro dei BRICS è oggetto dei primi dazi annunciati da Trump e sta negoziando con gli Usa un accordo commerciale per evitarli, come a esempio il Sudafrica. Per ora, è molto più probabile che i singoli paesi si preoccupino di cosa fare a livello bilaterale. La ragione di questo posizione conduce direttamente al secondo aspetto da tenere a mente.
Per comprendere cosa potrebbe avvenire bisogna riflettere infatti sul reale potere di influenza dei BRICS e sulla loro coesione interna. Il blocco è nato nel 2009 in modo del tutto informale, di fatto la stessa definizione di BRICS è stata coniata prima da un economista di Goldman Sachs e solo dopo è stata impiegata dai paesi interessati.
In oltre 15 anni i BRICS sono arrivati a rappresentare circa metà della popolazione mondiale e il 40% del PIL globale. Il volume degli investimenti diretti dei paesi del blocco è quadruplicato dal 2011 a oggi mentre dal 2015 a oggi la NDB dal ha approvato progetti dal valore di 32 o 39 miliardi di dollari, a seconda delle fonti. Il già citato CRA dispone di un fondo da circa 100 miliardi dollari invece. Non poco, ma ancora ben lontano dalle risorse dell’FMI.
In aumento sono anche le transazioni commerciali in valute che non sono il dollaro per quanto, come già ricordato, queste rappresentino una quota ancora minima del totale. In sintesi, il peso economico dei BRICS è una realtà.
Il problema è la tenuta e il valore politici. I BRICS non dispongono di una carta fondativa o di un segretariato. Più importante ancora, non dispongono neanche di una linea politica chiara.
Diversi stati membri sono apertamente rivali su tante agende (Cina e India per delle dispute di confine e la leadership regionale ed Egitto ed Etiopia attorno all’annosa questione della Grande diga della rinascita etiope – GERD – sul fiume Nilo, per citare i più rilevanti). Peggio ancora se parliamo del rapporto con gli Usa. La Cina, che da sola rappresenta il 17% del Pil, l’11% delle esportazioni e un quinto della popolazione dei BRICS, deve gestire una sorta di “guerra fredda” politica e commerciale con gli Usa che fa caso a sè.
Alcuni paesi sono nemici conclamati di Washington, come Russia e Iran, mentre altri paesi sono al contrario preziosi alleati (Arabia Saudita, Emirati, Egitto ma anche l’India). In questa grande eterogeneità di posizioni, difficile pensare alla nascita di una linea comune, a maggior ragione se Trump affronta il blocco frontalmente come sta facendo adesso.
Anche se questa potrebbe essere paradossalmente un’arma a doppio taglio. Mentre gestisce anche i rapporti bilaterali, l’amministrazione Usa attacca i BRICS anche come se fossero un blocco unico però, cosa che in realtà, ancora non sono. Chissà che non inizino a credere di esserlo però, una volta accomunati da dazi aggiuntivi al 10%. Se così fosse, sarebbero un’invenzione di Trump.
[Fonte: Nigrizia; Foto: Ricardo Stuckert]