Anna Foa al Sae, “le religioni possono avere un ruolo per la pace tra ebrei e musulmani. La diaspora lanci un appello”

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“Dopo il primo orrore è subentrata la percezione che quello che stava succedendo a Gaza non era solo un attacco per liberare gli ostaggi e distruggere Hamas ma era una vendetta, una punizione”. A parlare così durante la tavola rotonda “Uno sguardo su Israele e Palestina” – all’interno della 61ª sessione di formazione del Sae in corso a Camaldoli – è stata Anna Foa, vincitrice del Premio Strega per la saggistica con il volume “Il suicidio di Israele”, che ha ripercorso con lucidità e franchezza la catastrofe di Gaza seguita all’odioso massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre e l’oscillazione della percezione sulla tragedia in atto che ha portato alla distruzione, da parte dell’esercito israeliano, del 70% della Striscia, a migliaia di vittime e, da marzo, alla fame dei gazawi. La storica ha rilevato che la percezione che il mondo ha avuto di questa terribile vicenda, che comprende anche l’abbandono degli ostaggi nel corso di trattative sabotate da Netanyahu e Hamas, è a fasi alterne.

La storica ha rilevato che, nel succedersi del ricompattamento di una grande parte della popolazione israeliana attorno alla guerra, che si è spinta anche in Libano, sono subentrati due aspetti negli ultimi tempi: l’empatia verso i palestinesi e lo stato d’animo di rifiuto verso quello che sta succedendo – la mancanza di cibo e medicine, la morte dei bambini –, che ha spinto anche dei politici a riconoscere la Palestina, ad esempio Macron.

Secondo Foa l’aspetto religioso sta giocando un ruolo nella tragica vicenda. “Nonostante Israele sia nato con una forte prevalenza laica, resta però il fatto che la religione ha influenzato profondamente quello che è successo oggi, ma ha anche determinato la fine dell’esperienza di Oslo degli anni ’90 e la disillusione sulle possibilità di pacificazione”. Due momenti di rottura, opera di religiosi estremisti ebrei, sono stati, nel ’94, l’uccisione di 30 palestinesi nella moschea di Hebron, con la creazione di una mitologia razzista e messianica, e nel ’95 l’assassinio di Rabin da parte di un fanatico ebreo.

Secondo la storica, “il ruolo dei rabbini, tranne qualche eccezione, non è un ruolo di opposizione a questi estremismi. In tutto il mondo l’opposizione a questa situazione viene soprattutto dai liberal – riformati e conservatives –. Il mondo dei coloni si è espanso negli ultimi anni, hanno influenza crescente nell’esercito attraverso l’ideologia messianica, soldati in divisa con o senza kippa sono diventati religiosi, si agitano invocando espressioni cabalistiche e messianiche. Possono sembrare aspetti ininfluenti, in realtà l’ideologia che si diffonde è estremista, estremamente razzista verso gli arabi. Questo ci porta a dire che l’ebraismo è diventata una religione che viene assunta come arma da parte della parte più retriva della popolazione e dei suoi capi. Ma io non credo che l’ebraismo sia tutto così”.

La domanda che emerge è: “Le religioni possono avere un ruolo nel processo di pace in Israele e nella diaspora? Io credo che possono averlo soprattutto nella diaspora perché in Israele non esistono congregazioni riformate. La diaspora deve lanciare un appello per la pacificazione tra ebrei e musulmani. Vorrei ricordare qui la bella dichiarazione del card. Matteo Maria Zuppi e del presidente della Comunità ebraica di Bologna Daniele De Paz. Un legame religioso e una possibilità può venire dalla diaspora, però ci vorrebbe un coinvolgimento del rabbinato di Israele”.

[Fonte: Sir; Foto: Fondazione Filosofi lungo l’Oglio]