L’INTERVISTA / David Calef, “tardivi e inefficaci i deboli ripensamenti della comunità internazionale sui crimini di Israele a Gaza”

Sulla situazione in Medio Oriente e a Gaza, Tra Cielo e Terra ha intervistato David Calef, esperto di emergenze umanitarie, membro di “Mai indifferenti. Voci ebraiche per la pace” . Ex fisico, negli ultimi 25 anni Calef ha ricoperto posizioni chiave in agenzie delle Nazioni Unite, ONG e istituti di ricerca. Scrive di ebraismo, Israele, scienza e affari internazionali.
Di Antonella Palermo
Da più parti si chiede che Netanyahu fermi la guerra in corso a Gaza. Ma il conflitto non si ferma, perché secondo lei?
Ci sono almeno tre motivi importanti che spiegano la determinazione del governo israeliano a continuare le operazioni militari a Gaza ad oltranza.
Netanyahu è consapevole che una volta che le operazioni militari a Gaza si concluderanno, la società israeliana pretenderà di aprire un’investigazione per determinare le co-responsabilità israeliane per il massacro di Hamas del 7 ottobre. Quel giorno Hamas ha commesso orrendi crimini di guerra e porta le responsabilità per i 1.200 morti assassinati e per il rapimento dei 240 ostaggi. D’altra parte, è chiaro alla maggior parte dell’opinione pubblica israeliana che la dirigenza politica e militare israeliana ha agevolato del tutto non intenzionalmente i crimini di Hamas rendendo più facile penetrare in territorio israeliano senza trovare la dovuta resistenza.
Una volta conclusa la rappresaglia israeliana, l’opinione pubblica, i media e il sistema giudiziario vorranno identificare i responsabili della sottovalutazione del pericolo posto da Hamas; della decisione di mandare diversi battaglioni di soldati in Cisgiordania per proteggere i coloni e vessare i palestinesi lasciando così sguarnito il confine a sud con la Striscia, della decisione di affidarsi oltremisura alla tecnologia per identificare le intenzioni di Hamas e prevenirne le mosse. Il giorno dopo il 7 ottobre gli israeliani hanno capito che il sofisticato sistema high tech costituito da sensori sotterranei, sensori di movimento in superficie, telecamere intelligenti analizzate dall’intelligenza artificiale era stato del tutto inefficace. Chi è stato responsabile di questa combinazione di negligenza e arroganza?
È molto probabile che le responsabilità di Netanyahu verranno riconosciute durante l’investigazione. Inoltre, Netanyahu è indagato dal 2020 per reati di corruzione e frode in tre casi separati. Finché le operazioni militari israeliane sono in corso, il rischio di andare in galera è nullo. Una volta concluso l’intervento militare, il rischio aumenterà in modo esponenziale. Bisogna tenere conto poi che esiste nel governo israeliano una componente estremista e fanatica che dichiara da 20 mesi le proprie intenzioni di rioccupare Gaza per costruirci nuovi insediamenti. Smotrich, Ben Gvir e diversi altri ministri nel Likud (Shlomo Karhi) non fanno distinzioni tra Hamas e popolazione civile. È vero che non rappresentano la maggioranza della popolazione israeliana ma sono estremamente determinati.
A mio parere, esistono poi responsabilità enormi della comunità internazionale che ha di fatto sostenuto l’intervento israeliano. Già all’inizio dell’anno scorso e senz’altro dopo la distruzione di Rafah a maggio del 2024, quando il modus operandi dell’esercito israeliano e le intenzioni di pulizia etnica erano chiare, nessuna delle maggiori potenze occidentali ha fatto nulla per fermare Israele. Alcuni governi occidentali (Stati Uniti in testa e, in Europa, Francia, Gran Bretagna, Germania e Italia) hanno continuato a fornire armi a Israele chiudendo gli occhi di fronti ai crimini commessi a Gaza negli ultimi 21 mesi. I deboli ripensamenti delle ultime settimane sono tardivi e soprattutto non idonei a fermare l’IDF.
Secondo lei tra quanto accaduto il 7 ottobre e la successiva reazione di Israele c’è una sproporzione come denunciato da più parti?
Secondo il diritto umanitario internazionale, una reazione militare ad un’aggressione deve rispettare due criteri: quello della “distinzione”, che consiste nel distinguere tra miliziani/militari e la popolazione civile evitando di coinvolgere quest’ultima nei combattimenti); quello della “proporzionalità”: la risposta all’attacco di Hamas non può colpire civili in modo sproporzionato rispetto all’obiettivo militare che Israele intende perseguire.
Il governo israeliano non ha rispettato nessuno dei due criteri. Ora, Gaza è distrutta. Credo sia difficile argomentare che la risposta israeliana sia stata proporzionale.
Israele continua a essere definita l’unica democrazia in Medio Oriente, ma è ancora così?
Non è così. Non è così da tempo. Fino a qualche tempo fa, Israele poteva essere definita una democrazia all’interno della Linea Verde perché le minoranze non ebraiche avevano diritti, come votare, e per molti aspetti non erano esplicitamente discriminati. Ma da quando (luglio 2018) la Knesset (durante un governo guidato da Netanyahu) ha approvato la legge nota in inglese come Basic Law: The Nation- State of the Jewish People la situazione anche nei confini pre-1967 è cambiata. Infatti, il testo della Basic Law contiene delle disposizioni che ledono il principio di uguaglianza tra cittadini di diversa religione e/o etnia. Per esempio: il diritto all’autodeterminazione è riservato ai soli cittadini ebrei; l’ebraico è riconosciuto come unica lingua ufficiale; il “diritto agli insediamenti” è divenuto un “valore nazionale”.
La legge dichiara quindi che Israele è lo Stato nazionale del “solo” popolo ebraico, il che comporta che i cittadini palestinesi di Israele (circa il 20 % della popolazione israeliana) compresi quelli che appartengono alla minoranza drusa (2% della popolazione), storicamente amica e fedele alle istituzioni ebraiche, sono cittadini di seconda classe. Vale la pena notare che non esiste in Europa un Paese dotato di una Costituzione che determina che lo Stato è dominio esclusivo di un determinato gruppo etnico.
Ma già prima del 2018, Israele era responsabile per il regime di apartheid per i 2,6 milioni di palestinesi della Cisgiordania sottoposti a vincoli di tipo giuridico e pratico che condizionano in modo pesante la loro vita, le loro possibilità di lavorare, la loro dignità e la loro libertà. I residenti palestinesi di Gaza vivono dal 2007 in quella che con buona approssimazione si può chiamare una prigione a cielo aperto. Israele controlla quello che entra a Gaza, quello che ne esce, l’elettricità, attua restrizioni ad attività produttive come la pesca, etc.
In entrambi i territori, Israele sostiene che sono esigenze di sicurezza a determinare la necessità del regime oppressivo e antidemocratico imposto alla popolazione palestinese. Tuttavia, anche tenendo in considerazione il fatto che Hamas e altri gruppi jihadisti hanno come obiettivo la distruzione dello stato ebraico e che quindi il governo israeliano ha il dovere di proteggere i propri cittadini, la posizione delle autorità israeliane a questo proposito mi sembra del tutto insostenibile.
Il governo israeliano ha dichiarato di non essere responsabile della cronica carenza di cibo a Gaza, accusando invece i militanti palestinesi di Hamas di aver deliberatamente creato una crisi. Da persona che per professione si è dedicata alle emergenze umanitarie, come valuta il fatto che nella Striscia si muoia di fame?
Già dalla fine del novembre dell’anno scorso, la Corte Penale Internazionale aveva riscontrato fondati motivi per ritenere che Netanyahu, e l’allora ministro della Difesa Gallant, fossero responsabili del crimine di utilizzare la fame come metodo di guerra visto che il governo israeliano aveva interrotto più volte a proprio piacimento i flussi umanitari destinati alla popolazione palestinese di Gaza. A questo bisogna aggiungere che nel corso di oltre 20 mesi l’esercito israeliano ha distrutto campi agricoli e impedisce regolarmente la pesca. Quindi, la capacità dei gazawi di produrre cibo, già molto limitata e insufficiente, prima del 7 ottobre era diventata nulla. Questo ha determinato una situazione di sicurezza alimentare e nutrizionale molto precaria. Il blocco degli aiuti umanitari imposto a partire dall’inizio di marzo per circa 11 settimane ha reso catastrofica una situazione già compromessa soprattutto per i segmenti più vulnerabili della popolazione.
Prima del blocco degli aiuti, varie agenzie delle Nazioni Uniti insieme a molte ONG erano responsabili delle distribuzioni di cibo e di altri beni di prima necessità. La comunità umanitaria internazionale aveva disposto 400 punti di distribuzione sparsi nel territorio della Striscia. Dalla fine di maggio, Israele e Stati Uniti hanno sostituito le agenzie ONU e le ONG con un’organizzazione senz’alcuna esperienza negli interventi di aiuti umanitari: la Gaza Humanitarian Foundation (GHF). Da allora la situazione è precipitata. La domanda di cibo supera l’offerta. Il cibo distribuito nei quattro centri di distribuzione è insufficiente a sfamare i palestinesi.
Sotto il controllo della GHF, i siti sono passati da 400 a quattro, tre dei quali si trovano ad ovest di Rafah nell’estremo sud della Striscia ed uno solo nella parte centrale. La GHF non ha pianificato alcun centro di distribuzione nella parte settentrionale di Gaza dove si trovano centinaia di migliaia di palestinesi che in tal modo restano tagliati fuori dagli aiuti, fatta eccezione per qualche occasionale camion del World Food
Programme. La scelta logistica di GHF costringe quindi una parte della popolazione a percorrere lunghe distanze per accedere agli aiuti e ne esclude del tutto la parte residente a nord a cui è impedito raggiungere i punti di distribuzione.
Ogni razione della GHF è in media di circa 1.750 calorie/giorno inferiore alla razione umanitaria standard di 2.100 calorie per persona al giorno considerata quella necessaria a nutrire un individuo adulto. Quindi il regime alimentare concepito dalla GHF per i gazawi sembra fatto apposta per ridurli all’inedia.
Ma ciò che soprattutto distingue il sistema di aiuti della GHF da quello esistente fino a pochi mesi fa è che ricevere i pacchi alimentari è diventato una lotteria mortale, in cui coloro che arrivano nei pressi dei siti di distribuzione rischiano la vita e spesso la perdono. Ad ogni distribuzione l’esercito israeliano spara sulle folle di palestinesi radunatesi in attesa di ricevere il cibo. Il risultato è che alla fine di luglio circa mille palestinesi erano stati uccisi dai soldati israeliani. Secondo la versione ufficiale dell’esercito israeliano i soldati sparano colpi di avvertimento contro “individui sospetti” che si avvicinano troppo alle loro posizioni. In realtà le testimonianze, sia dei palestinesi sia degli operatori umanitari presenti sul campo e corroborate da esperti di armi consultati dalla CNN, sostengono che i beneficiari dell’assistenza non sono in preda ad un impulso suicida ma che Tsahal (le forze di difesa israeliane) fa un uso molto disinvolto di cecchini, droni, e carri armati per “controllare” la folla.
I palestinesi sono a malnutriti e affamati perché Israele ha imposto dall’inizio di marzo un blocco di tutti gli aiuti umanitari per 11 settimane. Ciò ha determinato una assoluta scarsità di alimenti di base (farina, zucchero, riso, olio vegetale) e un’inflazione di prezzi anche del 10,000 per cento (per lo zucchero per esempio) rispetto al settembre 2023. L’accusa rivolta da Israele ad Hamas di rubare il cibo per sostenere le proprie azioni non ha alcun senso. Hamas non ha alcuno scrupolo, questo è chiaro, ma può essere tentata di rubare il cibo solo in quanto è diventato carissimo. Ma le derrate alimentari di base sono diventate beni di lusso solo dopo il blocco alimentare imposto da Israele. Nessuno ruba un sacco di farina da un chilo quando costa un euro. La tentazione di rubarlo esiste adesso perché di euro ne costa 13. Detto questo, un’analisi recentissima condotta da United States Development (USAID), l’agenzia statunitense per gli aiuti umanitari e allo sviluppo, non ha trovato alcuna evidenza di prove di furti sistematici degli aiuti umanitari finanziati dagli Stati Uniti da parte di Hamas, smentendo quindi la motivazione addotta da Israele per sospendere l’ingresso di cibo e sostenere l’intervento della GHF.
I continui bombardamenti su Gaza mostrano la volontà di Israele di rendere la Striscia inabitabile. Allo stesso tempo, la Knesset ha votato una mozione che chiede l’annessione della Cisgiordania con una amplissima maggioranza. A cosa prelude un clima del genere?
Anche se non si arrivasse ad un’annessione formale è evidente che esiste una componente della società israeliana ben rappresentata nella Knesset e nel governo che aspira all’annessione della Cisgiordania e all’espulsione dei palestinesi dalla Striscia di Gaza. In questo secondo caso il fine è rioccupare la Striscia o almeno una buona parte di essa. Questa componente estremista è minoritaria nel Paese, nel senso che non sono molti gli israeliani che oggi hanno motivi per andare a vivere a Gaza, ma sono determinati e in questo governo sono molto influenti. La continuazione dei bombardamenti di Gaza, le aspirazioni all’annessione della West Bank e alla riconquista di Gaza sono manifestazioni del fanatismo di un gruppo relativamente limitato di individui e di gruppi sociali che hanno egemonizzato la politica israeliana nella sostanziale indifferenza della maggior parte della popolazione.
La complicità della comunità internazionale, che al massimo azzarda mosse importanti ma simboliche come il riconoscimento dello Stato di Palestina, resta un fattore importante che ha permesso lo sviluppo di questo clima.
Siamo al “suicidio di Israele”, per usare una espressione della scrittrice Anna Foa?
Sì. Un Paese che affama una popolazione dopo aver distrutto qualsiasi prospettiva di un futuro nella Striscia ha perso la propria bussola morale. Anche se le operazioni militari si fermassero domani, se gli aiuti umanitari entrassero a Gaza senza alcun impedimento, Israele come collettività non può tornare più indietro. Questo non significa che gli israeliani sono diventati dei mostri, degli aguzzini. Gli israeliani sono, per usare le parole di Primo Levi, della nostra stressa stoffa, sono esseri umani mediamente intelligenti, mediamente malvagi, salvo eccezioni, non sono mostri. Ma sono stati educati male. Sono stati abituati dal 1967 a esercitare il dominio su un altro popolo e questo li ha progressivamente corrotti. Se la tradizione ebraica insegna, almeno a coloro che sono religiosi, che tutte le persone sono create b’tselem Elohim, a immagine di Dio, i leader politici israeliani, da Netanyahu a Herzog a Ben Gvir, tradiscono quella tradizione.
Per questo, molti membri del governo israeliano e dei partiti di governo incitano a distruggere la Striscia di Gaza. Le affermazioni in questo senso sono troppo numerose per essere citate. La più recente è quella del Ministro del Patrimonio Amichai Eliyahu il quale a fine luglio ha dichiarato che il governo sta “accelerando affinché Gaza venga spazzata via”. Eliyahu ha anche affermato che “non c’è fame a Gaza”. “Ma non dobbiamo preoccuparci della fame nella Striscia”, ha continuato. “Lascia che se ne preoccupi il mondo”. Netanyahu ha invitato a ignorare queste affermazioni, ma l’incitamento a commettere crimini di guerra come lo sterminio e la pulizia etnica continua ininterrotto da 22 mesi. Ciò ha ormai compromesso la statura morale di Israele.
[Foto d’archivio]