I fronti aperti di Netanyahu

Israele affronta critiche per l’uccisione dei giornalisti di Al-Jazeera a Gaza, in un crescente isolamento internazionale, mentre monta la protesta interna e il riconoscimento della Palestina guadagna terreno. Il punto dell’ISPI.
Le crescenti critiche internazionali hanno messo Israele in una posizione di isolamento de facto, se non de iure. É quanto si legge in un’analisi pubblicata dal Jerusalem Post, quotidiano israeliano che – da posizioni di centrodestra – spesso non risparmia critiche al governo guidato da Benjamin Netanyahu, sostenuto dalla coalizione più estremista della storia di Israele. L’esecutivo sta vivendo un momento critico e segnato da sfide su più fronti, sia nelle relazioni internazionali che in patria. L’uccisione a Gaza di alcuni reporter dell’emittente qatariota Al-Jazeera, il più famoso dei quali è Anas al-Sharif, ha suscitato indignazione internazionale nei confronti delle Forze di difesa israeliane (IDF), secondo le quali Sharif era un membro attivo di Hamas, da cui percepiva un salario. Ad alimentare le pressioni su Israele c’è la disastrosa situazione umanitaria a Gaza e le proteste sia nello Stato ebraico che all’estero per l’annunciato allargamento delle operazioni militari nel nucleo urbano dell’enclave costiera palestinese (Gaza City). C’è attesa, inoltre, per la giornata di domenica, dato che i familiari degli ostaggi detenuti da Hamas, di alcuni soldati israeliani uccisi durante la guerra e delle vittime del 7 ottobre hanno indetto uno sciopero generale in tutto il paese per protestare contro la continuazione delle ostilità. A questo clima di incertezza si aggiungono le frizioni interne all’apparato della Difesa per alcune nomine chiave e il crescente sostegno internazionale al riconoscimento della Palestina.
Stampa nel mirino?
L’attacco che ha provocato la morte dei giornalisti di Al-Jazeera a Gaza è stato ampiamente condannato a livello internazionale. Il segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha chiesto un’indagine “indipendente e imparziale” sull’incidente, sottolineando inoltre che più di 240 giornalisti sono stati uccisi a Gaza dall’inizio della guerra. Anche il capo degli Affari esteri dell’Unione Europea, Kaja Kallas, ha condannato le uccisioni. “Prendiamo atto delle accuse israeliane secondo cui il gruppo era composto da terroristi di Hamas, ma in questi casi è necessario fornire prove chiare, nel rispetto dello stato di diritto, per evitare di prendere di mira i giornalisti”, ha affermato in una dichiarazione. Le IDF respingono le accuse, ribadendo che Sharif – volto noto dell’emittente panaraba per i suoi servizi e reportage da Gaza – era a tutti gli effetti un operativo di Hamas. “Prima dell’attacco avevamo ottenuto informazioni di intelligence che indicavano che Sharif era un agente attivo dell’ala militare di Hamas al momento della sua eliminazione”, ha dichiarato il portavoce internazionale delle IDF, Nadav Shoshani. Nessuna indicazione, invece, sull’affiliazione degli altri cinque giornalisti uccisi nell’attacco, che ha preso di mira una tenda vicino all’ospedale Shifa di Gaza, insieme a Sharif.
Danno di immagine?
Quali che siano le circostanze, l’accaduto segna l’ennesimo danno di immagine per il governo Netanyahu, già oggetto di critiche per la gestione degli aiuti umanitari a Gaza, che ha provocato centinaia di vittime da quando, a maggio, è passata dalla gestione delle Nazioni Unite alla controversa Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta da Israele e USA. Per tentare di rispondere alla pressioni internazionali su questo fronte, il Coordinatore israeliano delle attività governative nei territori (COGAT) ha pubblicato un rapporto secondo cui Hamas avrebbe gonfiato il bilancio delle vittime palestinesi morte per malnutrizione, la maggior parte delle quali avrebbe già sofferto di patologie pregresse. “L’organizzazione terroristica Hamas sfrutta cinicamente immagini tragiche e le abusa per una campagna di propaganda falsa e programmata, volta a generare pressione e creare un’opinione pubblica negativa contro lo Stato di Israele”, si legge in una dichiarazione ripresa dal Times of Israel. In ogni caso, la pressione internazionale su Israele non fa che aumentare, mentre cresce il numero di paesi che decidono di riconoscere lo Stato di Palestina. Ultimo, in ordine di tempo, l’Australia, il cui primo ministro Anthony Albanese ha annunciato che Canberra ufficializzerà la mossa diplomatica all’Assemblea ONU di settembre. “A quasi due anni dall’inizio della sua guerra – scrive il JPost – Israele si ritrova sempre più isolato sulla scena internazionale, impegnato a combattere su più fronti e a perdere rapidamente il sostegno alla sua lotta”.
Fronte interno in fermento?
È scontro, intanto, tra il ministro della Difesa Israel Katz e il capo di stato maggiore Eyal Zamir, criticato per aver tenuto discussioni sulla riorganizzazione delle posizioni di vertice delle IDF, tra cui sette comandanti di divisione e nuovi capi del corpo corazzato e del genio. Gli attuali protocolli richiedono l’approvazione del ministro della Difesa per le posizioni di alto livello nelle IDF, ma l’attuale querelle rappresenta l’ennesimo episodio di tensione tra i vertici militari, che non vedono di buon occhio l’allargamento della guerra a Gaza City, e il decisore politico. Centinaia di piloti in pensione e della riserva dell’aeronautica militare israeliana si riuniranno questa sera davanti al quartier generale delle IDF a Tel Aviv per chiedere la fine della guerra, mentre centinaia di persone – secondo quanto si apprende – parteciperanno allo sciopero generale indetto per domenica 17 dal Consiglio di ottobre, un gruppo che rappresenta le famiglie colpite dall’attacco di Hamas. Il leader dell’opposizione parlamentare, Yair Lapid, ha esortato anche i sostenitori del governo a unirsi alle manifestazioni. Obiettivo della manifestazione, a cui però non prenderà parte il principale sindacato israeliano (l’Histadrut), è di protestare contro la continuazione della guerra e contro il piano di prendere il controllo militare di Gaza City. Una mossa che, avvertono, potrebbe mettere in pericolo gli ostaggi ancora detenuti a Gaza e causare ulteriori vittime tra le IDF.
Il commento di Francesco Petronella, ISPI
“Da mesi sentiamo dire che qualcosa sta cambiando, fuori e soprattutto dentro Israele. Ma in queste settimane qualcosa di più concreto sembra muoversi. Il crescente riconoscimento internazionale della Palestina, per quanto sia un atto più che altro simbolico, non può lasciare indifferente l’establishment dello Stato Ebraico e va ad aggiungersi ad altri fattori di pressione sul governo di Netanyahu: i malumori dei vertici militari per l’annunciato piano di occupazione totale a Gaza, le critiche internazionali per la situazione umanitaria e, da ultimo, l’attacco mortale a danno di giornalisti affiliati a uno dei media più seguiti al mondo, ossia l’emittente panaraba Al-Jazeera. Se persino la stampa conservatrice israeliana, come il Jerusalem Post, arriva a scrivere che ‘lo tsunami diplomatico di cui tutti hanno parlato per anni si sta avvicinando’, vuol dire che qualcosa si sta effettivamente muovendo”.
[Fonte e Foto: ISPI]