Adel Misk: oltre ‘l’atto simbolico’, voto e forza internazionale per uno Stato palestinese

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All’Onu l’iniziativa franco-saudita per il riconoscimento di una sovranità a pieno titolo accanto a Israele. Ad oggi favorevoli 152 Paesi su 193, resta l’opposizione degli Stati Uniti. Fra i punti delineati da Macron “una missione internazionale di stabilizzazione”. L’attivista palestinese parla di “risveglio delle coscienze”, ma è solo “la prima tappa”, servono “altre azioni”. “Nella futura Palestina musulmani, cristiani ed ebrei siano uguali di fronte alla legge”. Il servizio di Dario Salvi su AsiaNews.

Il riconoscimento dello Stato palestinese, una “ondata internazionale” guidata dalla Francia che ha promosso assieme all’Arabia Saudita l’iniziativa diplomatica, non deve restare “solo un atto simbolico. Questa è la prima tappa, la prima fase” che va accompagnata da “altre azioni” perché non resti solo “lettera morta”. È quanto sottolinea ad AsiaNews Adel Misk, medico neurologo, esponente della società civile palestinese, commentando quanto avvenuto all’Onu alla vigilia dell’80.a Assemblea generale delle Nazioni Unite in programma al Palazzo di Vetro. E che vede la questione israelo-palestinese, la guerra a Gaza e il dramma degli ostaggi ancora in mano ad Hamas fra i temi principali al centro dell’assise, col piano elaborato da Parigi e Riyadh per porre fine al conflitto al centro dell’agenda globale, fra favorevoli e contrari.

“I temi oggetto di discussione in questi giorni – prosegue l’attivista palestinese – ci riportano ai tempi della risoluzione Onu 181, che ha definito la creazione di due Stati, uno israeliano e l’altro palestinese. Tuttavia, abbiamo assistito alla nascita dello Stato ebraico, senza nessuna applicazione dell’altra parte. Dopo 78 anni sembra essersi risvegliata la coscienza dei governi internazionali, grazie anche al sostegno dei loro popoli al diritto storico dei palestinesi ad esistere, a vedere riconosciuto un loro Stato in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, con Gerusalemme come capitale”.

Macron e il piano franco-saudita

Ieri alle Nazioni Unite si è tenuta la conferenza sulla Palestina che, a suo modo, ha segnato una svolta storica: una decina di nazioni, guidate dalla Francia di Emmanuel Macron, ha annunciato il riconoscimento dello Stato palestinese. Una scelta sostenuta e condivisa da altre realtà di primo piano dello scacchiere occidentale come Gran Bretagna, Canada e Australia, che hanno mostrato una volta di più l’isolamento degli Stati Uniti (e Israele) fermi nella loro opposizione. Al termine della “Conferenza internazionale di alto livello per la risoluzione pacifica della questione palestinese e l’attuazione della soluzione a due Stati”, questo il nome dell’iniziativa franco-saudita, almeno 11 Paesi hanno ufficializzato il riconoscimento: Francia, Australia, Belgio, Canada, Finlandia, Lussemburgo, Portogallo, Malta, Nuova Zelanda, Regno Unito e San Marino. 

Nel suo intervento il capo dell’Eliseo ha sottolineato che “questo riconoscimento è un modo per affermare” che quello palestinese “non è un popolo di troppo” e che ciò “non toglie nulla ai diritti del popolo israeliano”. Il piano non è solo un atto simbolico, ma è elaborato col contributo degli Stati del Golfo e definisce anche – seppur in maniera sommaria – i passi da compiere perché si possa tradurre in atto concreto: una prima fase incentrata sul piano di pace (dal conflitto a Gaza alle violenze e l’occupazione in Cisgiordania), seguita dalla seconda focalizzata su “stabilizzazione e ricostruzione di Gaza” con un progetto ben diverso dalla “riviera dorata” promossa dal presidente Usa Donald Trump e dal governo di ultra-destra israeliano guidato dal primo ministro Benjamin Netanyahu. Macron ha delineato una “amministrazione di transizione che includa l’Autorità Palestinese” chiamata ad “attuare lo smantellamento e il disarmo di Hamas, col sostegno dei partner internazionali e i mezzi che saranno necessari per questa difficile missione”. Parigi, ha proseguito, è pronta “a contribuire a una missione internazionale di stabilizzazione e a sostenere, coi suoi partner europei, l’addestramento e l’equipaggiamento delle forze di sicurezza palestinesi”. Infine, spetterà “anche” allo Stato di Palestina offrire ai cittadini “un quadro rinnovato e sicuro per l’espressione democratica” da tradursi in un voto atteso da 20 anni.

Reazioni internazionali

Il riconoscimento, pur con i suoi limiti, rappresenta un messaggio forte rivolto a Israele e al principale alleato, gli Stati Uniti. Riyadh, che assieme a Parigi guida la conferenza, per bocca del ministro degli Esteri Faisal bin Farhan Al Saud ha lanciato un appello a conclusione dell’intervento di Macron. “Invitiamo tutti gli altri Paesi a compiere un simile passo storico, che avrà un grande impatto – ha detto – nel sostenere gli sforzi verso l’attuazione della soluzione dei due Stati” perché è “l’unico modo per arrivare a una pace giusta e duratura”. In un video-messaggio all’assemblea [non può partecipare di persona perché Washington ha negato il visto] il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas ha lanciato un nuovo appello ad Hamas perché deponga le armi sostenendo che “non avrà alcun ruolo in un futuro governo”. “Condanniamo – ha concluso Abu Mazen – anche le uccisioni e la detenzione di civili, comprese le azioni di Hamas del 7 ottobre 2023”. 

Dopo il voto all’Onu, sono 152 i Paesi membri delle Nazioni Unite su 193 che riconoscono lo Stato della Palestina. Esso ha una popolazione permanente e un territorio in linea teorica stabilito [fra le condizioni previste dalla Convenzione di Montevideo del 1933 per la nascita di una realtà territoriale], pur restando il nodo dei territori e la minaccia consistente di Israele di procedere all’annessione. Il ministro israeliano degli Esteri Gideon Sa’ar ha definito il riconoscimento un “atto immorale, scandaloso e ripugnante”, oltre a rappresentare un “premio ad Hamas e una ricompensa per il terrorismo”. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich ha affermato che “i giorni in cui Gran Bretagna e altri Paesi avrebbero determinato il nostro futuro sono finiti”. Egli ha quindi aggiunto che “l’unica risposta alla mossa anti-israeliana è la sovranità sulla patria del popolo ebraico in Giudea e Samaria [Cisgiordania] e l’eliminazione dell’idea folle di uno Stato palestinese”. 

Accanto a Usa e Israele che si oppongono, Giappone, Corea del Sud e Singapore restano freddi in Asia, anche se ieri il ministro degli Esteri Vivian Balakrishnan ha aperto a una revisione della posizione di Singapore “Israele compirà ulteriori passi per liquidare la soluzione dei due Stati”. In Europa si registra la posizione di “attesa” di Italia e Germania che non spalleggiano la scelta di Macron pur non negando il diritto dei palestinesi ad un loro Stato. Per il segretario generale Onu Antonio Guterres “la sovranità nazionale per i palestinesi è un diritto” nell’ambito di due Stati che siano “indipendenti, contigui, democratici, vitali e sovrani”. “Non è una ricompensa – ha concluso – e negarla sarebbe un regalo agli estremisti di tutto il mondo”. In tema di territori, Francia e Arabia Saudita in una nota congiunta considerano “una linea rossa” qualsiasi tentativo o progetto “di annessione”, mentre resta “priorità assoluta” la liberazione degli ostaggi.

Tempo di agire

Adel Misk, già volto di The Parents Circle, associazione che riunisce centinaia di israeliani e palestinesi familiari di vittime del conflitto, conferma che il voto “non è una ricompensa, ma il riconoscimento di un diritto” che va oltre i simboli. “È giunto il tempo di agire – prosegue – perché si traduca in uno Stato reale. Ma affinché ciò avvenga servono sanzioni e boicottaggio verso Israele come avvenuto in passato per il Sud Africa”. Serve contrastare la politica israeliana che alimenta “la violenza dei coloni in Cisgiordania” e preme per “l’annessione dei territori”. “E ancora, l’apertura di ambasciate, una forza internazionale che pattugli il territorio – aggiunge – perché se resta un atto simbolico non serve a nulla”, anche se è di conforto vedere “il sostegno di molte piazze e popoli”. “I palestinesi – sottolinea – stanno seguendo con attenzione quanto sta accadendo, dai discorsi all’Onu a Gaza, fino alla Cisgiordania, dalle provocazioni dei coloni ai massacri in atto nella Striscia, fino alla minaccia di trasferire le masse”. E ancor più di discorsi sulla leadership, sulla futura guida di Abu Mazen o di Marwan Barghouti, il Nelson Mandela palestinese, quello che conta è “restituire la parola al popolo e procedere ad elezioni” attese ormai da quasi 20 anni.  

Vi è poi il nodo riguardante la presenza di Hamas all’interno del panorama politico e istituzionale di un futuro Stato palestinese. “Tutti dicono che deve essere senza Hamas – sottolinea Misk – ma non so come si possa fare un qualcosa di simile, perché è un partito, un’organizzazione, un’idea che rimane”. Inoltre, aggiunge, oggi “la priorità è fermare questa macchia della guerra, fermare questo sterminio di innocenti e questa fame che sta invadendo tutta la Striscia”. Infine, il tema degli “ostaggi” anche se nessuno parla “delle migliaia di prigionieri palestinesi [rinchiusi nelle carceri israeliane]” e quello dei coloni, i cui attacchi proseguono ininterrotti anche in queste ore. “Se ci sarà uno Stato palestinese, con una leadership e un confine determinato, con una sua sovranità – conclude Adel Misk – sarà aperto anche agli israeliani delle colonie che vorranno stabilirsi al suo interno, accettandone le leggi. Come avviene oggi per gli arabi israeliani. In caso contrario, le colonie andranno svuotate ma chi vuol rimanere è benvenuto: in un futuro Stato musulmani, cristiani, ebrei devono essere uguali di fronte alla legge e con gli stessi diritti”.

[Fonte: AsiaNews; Foto: Terrasanta.net]