Africa: la fuga dei giovani tra promesse mancate e nuove schiavitù

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L’emigrazione con la garanzia di un lavoro per molti africani si traduce in un inferno di sfruttamento e violazioni dei diritti, spesso con la complicità di agenzie senza scrupoli. La disoccupazione giovanile spinge i governi africani a promuovere il lavoro all’estero. Ma programmi come quello del Kenya sono spesso teatro di truffe e sfruttamento, in particolare per le donne in Russia e Arabia Saudita. Allarmi dalle organizzazioni per i diritti umani e dai sindacati su “lavori forzati” e diritti negati. Ne riferisce Bruna Sironi su Nigrizia.

Uno dei problemi sociali ed economici più gravi che la maggioranza dei governi africani deve affrontare è la disoccupazione, in particolare quella giovanile. In Africa i giovani costituiscono la fascia d’età più numerosa. Il 60% della popolazione ha meno di 25 anni mentre un terzo si colloca tra i 15 e i 34 anni.

Nella maggioranza dei paesi del continente il mercato del lavoro non riesce ad assorbire la massa di ragazze e ragazzi, spesso con diplomi e certificati di laurea, che ogni anno si affacciano alla vita adulta pieni di aspettative, ben presto frustrate dalla ricerca estenuante di un lavoro che valorizzi le loro conoscenze, ricompensi i loro sacrifici e l’impegno economico delle loro famiglie per farli studiare.

Un lavoro qualificato per moltissimi, non esiste e molto difficilmente esisterà neppure in un futuro prevedibile.

Non è diversa la condizione dei giovani poco qualificati, magari trasferitisi in città dalla campagna, con il sogno di una vita più moderna grazie alle occasioni offerte dal mondo urbano e di un lavoro sicuro che garantisca almeno una vita decente. Finiscono molto spesso a vivere negli slum e a lavorare nel settore informale, senza nessuna garanzia e sicurezza per il futuro.

I giovani vivono spesso questa situazione in modo esasperato e costituiscono il gruppo sociale più instabile, interessato a cambiamenti da ottenere anche con proteste e opposizione attiva ai loro governi.

Kenya, emigrazione favorita dal governo

Il caso del Kenya è significativo. L’anno scorso le manifestazioni della Gen Z hanno costretto il governo a ritirare la legge di bilancio e ad apportare modifiche nel governo e nella spesa pubblica.

Per molti giovani una buona opportunità potrebbe essere un lavoro all’estero, nella diaspora – espressione che evoca già di per sé una dispersione forzata – suggeriscono, non a caso, le autorità governative di diversi paesi del continente.

L’anno scorso, nel suo discorso per il Jamhuri Day, la festa dell’indipendenza che si celebra in Kenya il 12 dicembre, il presidente William Ruto ha vantato un programma governativo ad hoc, il Labour Mobility Programme, che dal momento dell’inaugurazione del suo mandato, nel settembre 2022, ha facilitato l’emigrazione di 243mila giovani alla ricerca di lavori qualificati in altri paesi.

Un programma approvato dal Parlamento con la definizione di “National Policy on Labour Migration” (Politica nazionale per la migrazione per lavoro) con lo scopo “di promuovere uno sviluppo inclusivo e sostenibile per il paese attraverso una emigrazione lavorativa sicura, ordinata e produttiva”.

Dal sogno all’incubo

Almeno queste sarebbero le intenzioni, ma la realtà sembra essere ben diversa. Sui mass media del paese vengono denuciati ripetutamente scandali riguardanti le agenzie che offrono lavoro all’estero. Un primo aspetto sono le promesse non mantenute.

Qualche settimana fa Kenya Insight, un sito di informazione indipendente, ha pubblicato un’inchiesta dal titolo Kenya’s overseas job scheeme rocket by scandals and broken promises (Lo schema per il lavoro all’estero del Kenya colpito da scandali e promesse non mantenute). Vi si denunciano agenzie registrate regolarmente, incaricate di realizzare le politiche governative in materia, in forza di una partneship almeno ufficiosa, colpevoli di truffare i loro utenti chiedendo soldi in anticipo senza poi offrire il servizio promesso.

Altre agenzie, ben 32, sono state recentemente deregistrate perché agivano in violazione delle leggi del paese e truffavano i propri utenti, anche mentendo sui lavori offerti.

Lavoro forzato in Russia

È il caso, ad esempio, delle centinaia di ragazze mandate in Russia con la promessa di borse di studio e lavori ben pagati che si sono trovate ad assemblare droni per la guerra in Ucraina. Nell’articolo pubblicato dal Sunday Nation il 18 maggio si cita un recentissimo rapporto del Global Initiative Against Transnational Organised Crime (GI-TOC), Who is making russian drones? (Chi sta costruendo i droni russi?) in cui si raccontano le condizioni di lavoro pericolose e in regime di semischiavitù in cui centinaia di ragazze, non solo kenyane ma anche ugandesi, tanzananiane, burkinabé e di altri paesi africani, sono costrette a lavorare per l’equivalente in rubli di 300/400 dollari al mese, una paga che nessun russo accetterebbe.

Il rapporto approfondisce le indagini su una situazione già conosciuta. Le prime informazioni sono state diffuse dall’Associated Press già nell’ottobre dello scorso anno e sono state riprese anche da Nigrizia. Ma evidentemente nulla è stato fatto nel frattempo per evitare che lo sfruttamento di giovani donne africane continuasse, neppure dai governi dei loro paesi.

Donne schiavizzate in Arabia Saudita

Nei giorni scorsi un’altra situazione gravissima è stata messa in evidenza da un rapporto di Amnesty International: quella delle donne africane, kenyane in particolare, che svolgono lavoro domestico in Arabia Saudita. Locked in, left out (Intrappolate, escluse), che descrive “le vite nascoste delle lavoratrici domestiche kenyane in Arabia Saudita”, è stato presentato a Mombasa, il maggior porto del Kenya, il 13 maggio.

Nel sommario del documento si dice che in Arabia Saudita si trovano circa 4 milioni di lavoratori domestici. 1milione e 200 mila sono donne provenienti soprattutto dal Kenya e da altri paesi dell’Africa orientale. Vi si citano espressamente agenzie illegali che ingannano le persone a cui promettono un lavoro decente e ben pagato sapendo che finiranno invece in situazioni paragonabili a quelle di lavoro forzato e semi schiavitù. Secondo Amnesty, ci sono tutti i requisiti per parlare di traffico di esseri umani.

Accordi tra Nairobi e Riyadh

Secondo stime del ministro degli Esteri Musalia Mudavadi, potrebbero essere più di 300mila i lavoratori kenyani in Arabia Saudita, la maggioranza donne impiegate come lavoratrici domestiche. Tra i due paesi c’è un accordo bilaterale per la protezione dei loro diritti. Ma, stando alle storie raccolte nel rapporto di Amnesty, sembrerebbe ampiamente disatteso.

Molte lavoratrici domestiche sarebbero oggetto di insulti razzisti, lavorerebbero senza interruzione, senza giorni di riposo, senza margini di libertà personale e spesso con salari decurtati e pagati in ritardo. Ma il governo difende l’accordo e derubrica come fuorviante la denuncia di Amnesty.

Sindacati in allarme

Eppure anche i sindacati esprimono le stesse preoccupazioni. Il 30 marzo la rete African Regional Organisation of the International Trade Union Confederation (Organizzazione regionale africana della confederazione sindacale internazionale – ITUC-Africa) ha diffuso un documento dal titolo drammatico: No more coffins: stop abuse and deaths of african migrant workers in Saudi Arabia (Basta bare: si metta fine agli abusi e alle morti dei lavoratori africani emigrati in Arabia Saudita).

I sindacati estendono la preoccupazione anche agli altri stati e staterelli della penisola arabica (gli Stati del Golfo). Nel testo si parla di “testimonianze di violazioni sistematiche e disturbanti dei diritti umani”. Si dice esplicitamente che gli accordi bilaterali tra i paesi africani e quei governi non sono serviti a proteggere i diritti dei lavoratori e si sollecita una loro revisione.

Morti sul lavoro non riconosciute nel settore edile

L’ITUC-Africa si dice particolarmente preoccupata per quanto potrebbe succedere in Arabia Saudita nel settore dell’edilizia, in vista della Coppa mondiale di calcio, FIFA 2034. Occasione per la quale il paese si prepara a importanti lavori di modernizzazione.

Il timore ha radici in quanto successo in passato, in simili occasioni, denunciato in un rapporto di Human Rights Watch, diffuso il 14 maggio. Saudi Arabia: migrant workers electrocuted, decapitated, and falling to death at workplaces (Arabia Saudita: lavoratori migranti folgorati, decapitati e morti per cadute nei cantieri) titola, riferendosi ai troppo numerosi incidenti sul lavoro avvenuti in quel settore.

Il documento parla in particolare di lavoratori asiatici morti in incidenti sul lavoro derubricati come morti per cause naturali allo scopo di privare le famiglie anche degli indennizzi contrattuali previsti.

Ma la centrale sindacale africana si dice certa che i lavori programmati per la Coppa del Mondo del 2034 implicherà l’assunzione di numerosi lavoratori anche dai paesi dell’Africa e si preoccupa della difesa della loro sicurezza sul posto di lavoro e dei loro diritti come esseri umani e come lavoratori.

La conclusione del documento è una chiamata alla responsabilità che non si può che condividere: “Le vite dei neri sono importanti. Le vite degli africani sono importanti. La dignità, la sicurezza e i diritti dei lavoratori africani devono essere protette, ovunque siano nel mondo”.

[Fonte e Foto: Nigrizia]