Benin: la fede al confine del jihad

Condividi l'articolo sui canali social

Nel Benin saheliano, un missionario descrive il patto silenzioso con i gruppi armati che gli permette di continuare a essere un punto di riferimento sanitario per tutti.

Di Enrico Casale, da Africa Rivista

Nel nord del Benin, al confine con il Burkina Faso, la presenza jihadista è diventata una realtà quotidiana. Qui, nella regione saheliana, la minaccia jihadista non è più solo una preoccupazione isolata, ma un fattore strutturale che condiziona la vita delle comunità locali e il funzionamento delle strutture sanitarie. In questa terra di confine, povera e dimenticata, operano missionari cattolici che, da decenni, rappresentano un punto di riferimento sanitario per migliaia di persone. “Siamo sulla frontiera con il Burkina, dove i jihadisti si sono insediati stabilmente – osserva uno dei missionari, che chiede l’anonimato per motivi di sicurezza –. Ci troviamo in un’area che è diventata uno dei loro principali insediamenti e il rischio è costante. Eppure nessuno dei sacerdoti cattolici che operano qui ha mai pensato di andarsene”.

Per anni considerato un bastione di sicurezza e stabilità, il Benin ha affrontato ondate di violenza legate a elezioni contestate e tensioni politiche di vario genere. Quella fase, però, sembra essersi conclusa. Secondo un’analisi di Affari Internazionali, dalla fine del 2021 il Paese si trova ad affrontare una nuova minaccia: il jihadismo regionale. Il terrorismo è diventato un’emergenza nazionale. Le autorità si stanno battendo per evitare che il Benin si ritrovi, tra qualche anno, nella stessa situazione del Mali o del Burkina Faso, Paesi che negli ultimi dieci anni hanno vissuto dinamiche simili.

Le zone più settentrionali del Benin sono le più povere. Mancano infrastrutture e servizi di base, come ospedali e scuole, e lo Stato è praticamente assente. Come in altri contesti simili, queste condizioni favoriscono il proselitismo. “Il discorso religioso – spiega Oswald Padonou, professore di studi strategici e di sicurezza beninese, intervistato dal sito Pulitzercenter.org – non è altro che uno schermo di mobilitazione per entità criminali ramificate e diversificate, che sfruttano sentimenti anti-statali per reclutare e rendere instabili, in modo permanente, quelle aree dove la popolazione lotta già per la propria sopravvivenza a causa della crescente scarsità di risorse”. A peggiorare la situazione contribuisce anche la crisi climatica, che ha iniziato a colpire questi territori con maggiore intensità, sconvolgendo gli equilibri socio-economici e generando nuovi, profondi risentimenti.

La presenza degli estremisti islamici ha trasformato le dinamiche sociali ed economiche della regione. Le strade sono pattugliate o bloccate, i raccolti minacciati. “C’è chi riesce a coltivare il sesamo, che è molto ambito e costoso – racconta –, ma per poter raccogliere i frutti del proprio lavoro serve la scorta dell’esercito. Senza protezione, si rischia che i jihadisti portino via tutto. O peggio, se ci si oppone, si può anche perdere la vita”.

Proprio per evitare rischi di attacchi terroristici nel nord del Paese, nei giorni scorsi il Comune di Tanguiéta ha adottato misure senza precedenti. Con una decisione del sindaco El Hadj Boukary Zachary, la coltivazione di mais, miglio e sorgo è stata vietata. Secondo l’amministrazione comunale, queste colture, ad alta densità e di grandi dimensioni, compromettono la visibilità durante le pattuglie di sicurezza e possono offrire nascondigli a individui armati.

I gruppi armati, probabilmente legati a formazioni attive in Burkina Faso e Niger, non si limitano al controllo del territorio: impongono una sorta di economia parallela, fatta di violenza, estorsioni e isolamento forzato. “Molti contadini non riescono più a vendere le loro granaglie – prosegue il missionario –. Vengono depredati lungo le vie di comunicazione e la povertà aumenta ogni giorno, in una sorta di circolo vizioso”.

Nonostante tutto, le strutture mediche cattoliche continuano a operare. I jihadisti, pur presenti, non hanno mai colpito direttamente dispensari e ospedali. “Forse ci rispettano solo perché curiamo tutti, compresi i loro feriti”, ammette il religioso. È un fragile equilibrio, un patto non scritto che consente anche ai cattolici di sopravvivere.

La comunità musulmana locale, distinta dai gruppi estremisti, condanna apertamente le violenze jihadiste. “Ogni venerdì ricevo messaggi da parte dei musulmani della zona, che pregano per noi nelle moschee. Sono i nostri alleati più sinceri”, afferma il missionario.

Ma il pericolo resta. La situazione potrebbe precipitare in ogni momento. Eppure, chi opera sul campo non arretra. “Non possiamo abbandonare questa gente – conclude –. La nostra missione è stare dove c’è più bisogno, anche quando il buio si fa più fitto”.

[Fonte e Foto: Africa Rivista]