Repubblica Democratica del Congo: inferno a Goma

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Oltre 3mila morti a Goma, mentre i ribelli violano il cessate il fuoco e riprendono l’avanzata nell’est del Congo. Ma la comunità internazionale non osa sanzionare il Ruanda. Questo il punto di Alessia De Luca per l’ISPI.

“I container refrigerati e gli obitori sono pieni, dovremo effettuare diversi giorni di sepolture di massa”: le parole che Myriam Favier, responsabile del Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR) a Goma affida a Le Monde rendono idea dell’entità dei massacri che si stanno consumando nel capoluogo del Nord Kivu, teatro dal 23 gennaio scorso di una massiccia offensiva armata da parte dei ribelli del Movimento 23 Marzo (M23) sostenuti dal Ruanda. Secondo le Nazioni Unite, sono circa 3mila finora i corpi senza vita recuperati nella capitale, dopo che la coalizione ribelle Alleanza del Fiume Congo (AFC) – che include il gruppo armato M23 – ha annunciato un cessate il fuoco martedì scorso, infranto dopo appena 48 ore. Tra questi, quelli di centinaia di donne violentate e bruciate vive nella sezione femminile del carcere Munzenze durante un’evasione di massa. Secondo i funzionari delle Nazioni Unite, dopo l’aggressione la prigione è stata data alle fiamme con le detenute al suo interno. I contorni della vicenda, che si configura come una delle peggiori atrocità commesse nelle ultime settimane, nonché come possibile crimine di guerra, sono ancora da chiarire: ai peacekeeper della missione Onu dispiegata nella zona (Monusco) è stato impedito effettuare sopralluoghi nella prigione, il che lascia aperti diversi scenari quanto alle responsabilità dell’accaduto. Da anni le Nazioni Unite denunciano che nell’est del Congo gli stupri etnici vengono utilizzati su larga scala sia dall’esercito regolare che dalle milizie come ‘arma di guerra’.

Il Ruanda nega l’evidenza?

Nonostante prove e testimonianze, riscontrate anche dai funzionari Onu che ne hanno denunciato la presenza sul terreno, il Ruanda nega di sostenere la ribellione o che le sue forze siano entrate nel Congo orientale. Tuttavia, diversi osservatori ipotizzato che Kigali abbia favorito l’offensiva con l’obiettivo di annettere parte del territorio, il cui sottosuolo è ricco di metalli preziosi e terre rare. Per questo osservatori e volontari da tempo esortano il Consiglio di sicurezza dell’Onu ad aumentare la pressione sul Ruanda. Con uno sviluppo imprevisto, dopo aver sferrato l’attacco, conquistato la città e dichiarato di volersi spingere “fino a Kinshasa”, i ribelli dell’M23 avevano annunciato un cessate il fuoco unilaterale, che sarebbe stato infranto appena poche ore fa, con una ripresa dell’avanzata ribelle verso Bukavu, capoluogo del Sud Kivu. “La proclamazione del cessate il fuoco era una farsa”, ha detto Patrick Muyaya, portavoce del governo congolese. “Le milizie hanno attraversato la grande barriera di Goma per attaccare la città di Nyabibwe. Al momento stanno affrontando una risposta da parte delle forze armate congolesi, che sono più che determinate a difendere la patria” ha aggiunto.

L’Ue complice?

Secondo gli esperti delle Nazioni Unite sarebbero almeno 4mila i militari ruandesi attualmente presenti nell’est della Repubblica Democratica del Congo. Eppure, nonostante le accuse di ‘pulizia etnica’ in corso, il Consiglio di Sicurezza e la comunità internazionale non hanno adottato alcun provvedimento concreto contro Kigali. Il motivo è da rintracciare nel talento del Ruanda nell’intrecciare relazioni amichevoli con gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia, tre dei cinque membri permanenti dell’organismo Onu, oltre che con l’Unione Europea. Ignorando gli avvertimenti delle Nazioni Unite, infatti, l’Ue ha pagato alle truppe ruandesi 20 milioni di euro per salvaguardare il complesso TotalEnergies, di proprietà francese, in Mozambico. E solo un anno fa, Bruxelles ha firmato con Kigali un memorandum d’intesa (MoU) sulle catene del valore delle materie prime sostenibili per un valore di 900 milioni di euro che Kinshasa ha definito “una provocazione di pessimo gusto”. I critici, infatti, denunciano che la constante fornitura di materiali utili alla transizione energetica e alle nuove tecnologie esportati da Kigali, come coltan, rame, cobalto e litio, altro non siano che i frutti del saccheggio sistematico delle miniere delle regioni congolesi controllate dai gruppi armati ruandesi. Di recente, anche il colosso della tecnologia Apple è stato citato in giudizio dal governo di Kinshasa come potenziale acquirente di minerali provenienti da zone di conflitto.

Un conflitto nell’indifferenza generale?

La Repubblica Democratica del Congo è sull’orlo del baratro da oltre 30 anni, nel corso dei quali più volte si è lanciato l’allarme per attirare l’attenzione della Comunità internazionale.Il disastro umanitario a cui si assiste in questi giorni è infatti la diretta conseguenza di una lunga guerra che causò oltre 5 milioni di morti solo tra il 1997 e il 2003. E la cui contabilità macabra, da allora, è pressoché impossibile da tenere. Si tratta infatti divittime in una guerra atipica che ha smesso da anni di essere un conflitto tra eserciti e gruppi armati per trasformarsi in una guerra combattuta da una miriade di bande armate contro popolazioni civili inermi. Nonostante i ripetuti segnali, tuttavia, nulla e nessuno ha raccolto – tanto nelle cancellerie che contano quanto tra i media mainstream – il grido di dolore di un intero popolo calpestato nell’indifferenza del mondo. La comunità dell’Africa Orientale e i paesi impegnati nella mediazione, tra cui l’Angola e il Kenya, cercano di individuare una soluzione politica, temendo un allargamento del conflitto. Secondo fonti diplomatiche, infatti, l’avanzata dell’M23 e dei soldati ruandesi potrebbe indebolire il governo del presidente congolese Félix Tshisekedi, rieletto per un secondo mandato nel dicembre 2023. Intanto, la popolazione resta sola di fronte ad un conflitto ipocritamente derubricato a scontro tribale, nonostante il filo diretto con attori e interessi legati allo sfruttamento minerario su cui si basa la transizione energetica dell’economia occidentale sia tanto evidente da apparire ormai sfacciato.

Il commento di Giovanni Carbone, Head ISPI Africa Programme

Le due facce dello scontro che sta dietro alla caduta di Goma non sono nuove. Anni fa alcune analisi[1] di questa e altre crisi diffusero l’impiego dei termini greed (avidità), per sottolineare il prevalere degli interessi materiali nell’alimentare le guerre civili, e grievance (liberamente traducibile qui come rivendicazione), come spiegazione complementare se non alternativa, che rimarcava come a mettere in moto le violenze fossero spesso percezioni di torti subiti, in genere appunto da specifiche comunità. Le differenze identitarie e quelle di interessi, tuttavia, esistono pressoché ovunque nel mondo. La loro presenza da sola non rende inevitabile la violenza. Ma contenere queste differenze richiede, tra le altre cose, un quadro di istituzioni sufficientemente legittimo, solido e capace di gestirle e incanalarle, organizzando e favorendo dialogo e coesistenza a livello politico, economico e sociale. Quel quadro statuale di fondo che in Congo non è sostanzialmente mai pienamente esistito.

[Fonte: ISPI; Foto: Vatican News]