Sud Sudan: come ridare un senso alla missione Onu

Condividi l'articolo sui canali social

Presto UNMISS perderà parte dei finanziamenti stanziati dagli Stati Uniti. Con il paese sull’orlo del collasso, contagiato dalla vicina crisi sudanese, per arginare le violenze le Nazioni Unite hanno una sola strada: fare pressione sui paesi della regione in stretto contatto con il presidente Kiir. Il servizio di Rocco Bellantone per Nigrizia.

Dopo la chiusura di USAID, l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, e le minacce di pesanti riduzioni dei fondi destinati alle attività delle varie agenzie internazionali collegate alle Nazioni Unite, negli ultimi mesi un alone di incertezza si è esteso anche sul futuro di molte missioni di peacekeeping in corso in tutto il mondo e a cui gli Stati Uniti contribuiscono sul piano economico in modo rilevante.

Sono undici le missioni di pace attualmente in corso, di cui cinque in Africa: Sudan, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, Repubblica democratica del Congo e Sahara Occidentale. Il 29 agosto il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato l’annullamento di 4,9 miliardi di dollari destinati agli aiuti esteri che erano stati autorizzati dal Congresso. Nella cifra rientrano anche circa 838 milioni di dollari stanziati per il biennio 2024-2025 per queste missioni.

Per l’ONU, che quest’anno celebra ottant’anni dalla sua fondazione, sarebbe un colpo davvero duro da reggere. Gli USA sono infatti il paese che contribuisce di più alle missioni di peacekeeping. Copre il 27% dei 5,6 miliardi di dollari messi in totale sul piatto da tutti i paesi contribuenti per il loro mantenimento e da soli, dal 2005, hanno investito oltre 1,5 miliardi di dollari.

Nel presentare il piano di tagli l’amministrazione Trump non ha risparmiato critiche verso le missioni di pace, parlando di sprechi e del persistere di violenze nei paesi interessati, citando in particolare i casi di abusi e di sfruttamento sessuale nella Repubblica democratica del Congo e nella Repubblica Centrafricana, e facendo notare che miliardi di dollari stanziati sono finiti impigliati in giri di corruzione.

Il caso Sud Sudan

Critiche difficili da smentire anche alla luce di un recente report attraverso cui sono state le stesse Nazioni Unite a denunciare la corruzione diffusa a vari livelli nel governo e nella classe politica e dirigente proprio di uno dei cinque paesi africani in cui è in atto una missione di peacekeeping, ovvero il Sud Sudan del presidente Salva Kiir. 

Sulla situazione in Sud Sudan, e sulle perplessità manifestate dagli USA rispetto al loro impegno nella missione UNMISS, si era espressa lo scorso 18 agosto Dorothy Shea, rappresentante permanente per gli Stati Uniti all’ONU, in occasione di un briefing del Consiglio di sicurezza sulla situazione della sicurezza nel paese.

«Le azioni della leadership sudsudanese hanno segnato l’abbandono di fatto dell’accordo di pace del 2018 su cui si basa il governo di transizione”, ha dichiarato l’ambasciatrice. «Non possiamo fingere che quell’accordo venga attuato mentre il primo vicepresidente Machar è agli arresti domiciliari, altri membri del suo partito sono in carcere e gli attacchi militari dell’SSPDF (South Sudan People’s Defence Forces, l’esercito nazionale, ndr) continuano contro altri sudsudanesi».

II mandato della missione UNMISS è stato rinnovato per un altro anno lo scorso 8 maggio dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

Istituita nel 2011 per accompagnare l’avvio di un processo democratico nel nuovo stato del Sud Sudan, allo scoppio della guerra civile nel 2013 tra le fazioni armate guidate rispettivamente dal presidente Salva Kiir e dal suo vice Riek Machar, UNMISS ha dovuto rivedere i propri piani concentrandosi anzitutto sulla protezione dei civili.

L’accordo di pace firmato tra le parti in conflitto nel 2018 (R-ARCSS, Revitalised Agreement on the Resolution of the Conflict in the Republic of South Sudan) doveva dare il là a una sospirata fase di progressiva stabilità per il paese che però, di fatto, non si è mai concretizzata. Nessuno dei punti cardine dell’intesa – tra cui l’unificazione delle forze di sicurezza, la stesura di una nuova Costituzione e la preparazione delle prime elezioni – è stato centrato, e nel momento in cui nel marzo scorso Machar è stato posto agli arresti domiciliari e poi trascinato in tribunale, l’accordo è stato di fatto stracciato dal governo.

Gli USA si smarcano

Come segnalato in un’analisi dell’istituto ISS Africa, il 30 aprile scorso, dunque pochi giorni prima del rinnovo di UNMISS, gli USA hanno provato a dettare una nuova linea per il proseguimento della missione, presentando una bozza di risoluzione che ha innescato una serie disaccordi tra i membri del Consiglio di sicurezza.

In primis gli Stati Uniti hanno evidenziato la necessità di esercitare maggiore pressione sul governo del presidente Kiir per costringerlo ad attenersi almeno ad alcuni dei punti chiave dell’accordo di pace. La proposta è stata però bloccata dall’opposizione di Russia e Cina che temevano un’eccessiva intromissione negli affari interni sudsudanesi.

Altre proposte, più legate alla forma, hanno comunque fatto emergere l’approccio smaccatamente più cinico dell’amministrazione Trump, rispetto a chi lo ha preceduto alla Casa Bianca, su una serie di questioni e argomenti correlati alla difesa dei diritti umani, alla parità di genere e alla crisi climatica.

Ad esempio, nella bozza di risoluzione avanzata dagli USA l’espressione “violenza sessuale e di genere” è stata sostituita con “violenza contro donne e ragazze”. Sono stati rimossi dei passaggi relativi alla disinformazione mentre l’espressione “cambiamento climatico” è stata sostituita con “cambiamento ambientale” o “catastrofi naturali”.

A fronte della contestazione di queste modifiche da parte dei membri europei del Consiglio di sicurezza, gli Stati Uniti hanno dovuto fare un passo indietro, presentando alla fine una quarta e ultima bozza di risoluzione, poi adottata, che ha ripristinato gran parte del testo che era stato precedentemente concordato.

Al netto di queste giravolte, in questi tentativi, e soprattutto nei tagli decisi successivamente, è apparso evidente l’obiettivo dell’amministrazione Trump di mettere in discussione il sistema multilaterale che regge il processo decisionale e la gestione delle missioni di pace. Al punto che per far prevalere la sua visione Trump sarebbe pronto a ritirare per intero i finanziamenti statunitensi previsti per il 2026, come proposto dall’Ufficio di bilancio della Casa Bianca.

Per il momento oltre al taglio dei fondi per il biennio 2024-2025, l’ONU deve fare i conti con la decisione degli USA, presa ad aprile, dunque nelle settimane in cui era ancora in fase di negoziazione il rinnovo del mandato di UNMISS, di ritirare il suo piccolo contingente di peacekeeper impegnato nel paese, per lo più ufficiali impiegati per supportare la pianificazione, la logistica e le operazioni della missione.

In realtà un primo disimpegno in Sud Sudan da parte degli USA c’era già stato a partire dal 2022, dunque sotto l’amministrazione Biden, quando gli Stati Uniti si ritirarono dai meccanismi di monitoraggio e valutazione del R-ACRSS lamentandone il mancato rispetto.

Senza i soldi degli Stati Uniti la missione UNMISS, così come molte altre d’altronde, farebbe fatica a reggere a lungo. “Senza risorse sufficienti, faremo meno con meno, con implicazioni potenzialmente gravi per la pace e la sicurezza in contesti come il Sud Sudan e la Repubblica democratica del Congo, dove i vincoli finanziari potrebbero limitare significativamente la nostra capacità di proteggere i civili”, ha affermato un portavoce delle Nazioni Unite per le missioni di peacekeeping sentito dall’agenzia Reuters.

Venti di guerra

La situazione del paese è da tempo al collasso. Come evidenziato in un rapporto di inizio agosto del Segretario generale dell’ONU, dal primo aprile al 15 luglio i bombardamenti aerei e i combattimenti terrestri hanno provocato lo sfollamento di 300mila persone. Donne e ragazze subiscono violenze sessuali, i bambini vengono mutilati, uccisi o reclutati per combattere. Il 70% della popolazione necessita di assistenza umanitaria.

La vicina guerra in Sudan ha spinto in Sud Sudan oltre 1,2 milioni di persone e risucchiato l’unica grande ricchezza del paese, il petrolio, con i combattimenti che hanno interrotto il passaggio del greggio verso Port Sudan. L’esercito agli ordini del presidente Kiir, sostenuto da forze ugandesi, da marzo conduce una campagna militare contro le roccaforti dell’opposizione nelle regioni di Equatoria e dell’Upper Nile in Sud Sudan.

A preoccupare è anche la recente alleanza tra la forza di opposizione SPLM/A-IO e il movimento armato Fronte di salvezza nazionale (NAS), per “liberare il paese dall’attuale regime”. Le due milizie per la prima volta nei giorni scorsi hanno dichiarato di aver attaccato e preso il controllo una guarnigione strategica nello stato di Equatoria Occidentale, uccidendo 13 soldati delle Forze di difesa popolare (SSPDF). 

Il think tank Crisis Group segnala che in un conflitto che non è più isolato ma sta diventando sempre più parte di una crisi regionale, è necessario che il Consiglio di sicurezza dell’ONU faccia pressione sugli stati africani in stretti rapporti con il governo di Juba – non solo Uganda, ma anche Kenya, Etiopia, Sudafrica e Tanzania – per spingere il presidente Kiir a una mediazione con il vicepresidente Machar, che nel frattempo è sotto processo accusato di omicidio, tradimento e crimini contro l’umanità.

Solo in questo quadro, collaborando con questi paesi, con l’Unione Africana e con gli stati membri del blocco regionale IGAD (organizzazione regionale di stati del Corno d’Africa, della Vale del Nilo e dei Grandi Laghi), l’ONU potrebbe ridare un senso alla sua missione.

[Fonte e Foto: Nigrizia]