SPECIALE / Il mondo secondo Trump

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La vittoria di Donald Trump e la prospettiva di un secondo mandato sollevano molte incertezze, sia per gli Stati Uniti che per l’equilibrio internazionale.

Di Mario Del Pero (dall'ISPI)

La vittoria di Donald Trump e la prospettiva di un suo secondo mandato aprono una serie di incognite e di scenari difficili da prevedere e immaginare. Dobbiamo ancora capire quali siano i risultati definitivi al Congresso e se vi sarà nel primo biennio presidenziale un governo unitario come quello di cui poté beneficiare, sia pure con maggioranze molto risicate a Camera e Senato, Biden tra il 2021 e il 2023. Come dobbiamo ancora computare bene i risultati delle elezioni per le 85 assemblee legislative e capire quali equilibri avremmo negli stati e il loro impatto nella dialettica tra il potere federale e quelli statali.
Fatte queste premesse, è chiaro che il ritorno di Trump alla Casa Bianca è destinato ad avere un impatto importante, e potenzialmente rivoluzionario, sia sulla politica estera sia su quella interna. Anche perché tutto lascia presagire che la seconda amministrazione Trump sarà più coesa, omogenea e radicale (o trumpiana), di quella del 2017 quando le élite internazionaliste repubblicane cercarono di mettere sotto tutela il Presidente eletto, per contenerne le intemperanze e limitarne l’estremismo. Proviamo quindi a individuare quali sono i dossier e gli ambiti di azione sui quali si concentrerà la sua azione e le possibili conseguenze.

La politica estera, innanzitutto (per quanto arbitraria e artificiale sia, nel caso degli Usa, una separazione netta tra la politica estera e quella interna). Il nuovo (e vecchio) Presidente condivide con il suo predecessore Biden e con un’ampia maggioranza bipartisan dell’elettorato un assunto che sta avendo, e avrà, un impatto profondo sull’azione internazionale degli Usa: l’idea che gli Usa debbano intervenire sui processi d’integrazione globale dell’ultimo mezzo secolo, alterando l’infrastruttura di base della globalizzazione a partire da quelle catene transnazionali di valore che, si sostiene, erodono la sovranità degli Usa mettendoli alla mercé di altri attori e accentuano il potere di condizionalità della Cina, considerata il principale, e per certi aspetti unico rivale di potenza degli Stati Uniti. Aspettiamoci quindi guerre commerciali ben più radicali di quelle del primo mandato trumpiano. E aspettiamoci una linea di azione molto “transazionale” che distingue poco o nulla tra alleati e avversari, e colpisce gli stessi partner europei, a partire dalla Germania (che continua ad avere imponenti attivi commerciali con gli Usa, regolarmente denunciati da Trump).

Europa che sarà presumibilmente messa alle strette anche sul secondo cruciale dossier: quello ucraino. Trump, e ancor più il suo vice J.D. Vance, hanno esplicitato con nettezza la loro intenzione di disimpegnarsi dal teatro ucraino, ponendo termine ai massicci aiuti economici e militari inviati da Washington nei due anni e mezzo trascorsi dall’aggressione russa. Una linea sollecitata ormai da una chiara maggioranza dell’elettorato repubblicano e da un numero vieppiù crescente di democratici. Non vi sarà un’uscita dalla NATO, peraltro resa ancora meno praticabile da una legge approvata il dicembre scorso che impone lo stesso modello di ratifica dei trattati, ossia la maggioranza qualificata dei 2/3 dei senatori presenti in aula. Ma l’Alleanza Atlantica – un’organizzazione, a volte lo dimentichiamo, sostanzialmente federata dalla leadership statunitense – potrebbe essere svuotata di significato politico e capacità operativa da questo disimpegno statunitense. Che imporrebbe in teoria agli alleati europei di surrogarlo alzando la soglia loro dell’impegno e della cooperazione in ambito securitario. Ma che storicamente li ha invece ancor più divisi, con una frequente (ancorché invariabilmente velleitaria) rincorsa a cercare una relazione bilaterale speciale con gli Usa. Una dinamica, questa, resa ancor più plausibile dal possibile effetto domino che la vittoria di Trump potrebbe avere nel Vecchio Continente, offrendo legittimità e forza politica ai tanti soggetti della galassia nazionalista, antiatlantica ed eurofoba.

Terzo e ultimo: il Medio Oriente. Qui sappiamo che Trump appoggia pienamente la sproporzionata reazione israeliana all’orrore del 7 ottobre e, anche, la decisione di estendere il conflitto, colpendo l’Iran. Resta da vedere che peso e influenza potranno avere altri attori regionali, a partire dall’Arabia Saudita, così centrale nella diplomazia regionale della prima amministrazione Trump e che, è utile ricordarlo, ha messo a disposizione del genero di Trump, Jared Kushner, quasi l’intero capitale (2 miliardi di dollari) del suo fondo creato nel 2021. Non vi saranno però quei tentennamenti e quei possibili cambiamenti di linea immaginabili qualora Harris avesse vinto, anche perché l’elettorato repubblicano, diversamente da quello democratico, è fermamente schierato al fianco d’Israele e del governo Netanyahu.

Sul piano interno, possiamo prevedere che subito dopo l’insediamento saranno approvate per via esecutiva azioni radicali, e ad alta valenza simbolica, in alcuni ambiti cari alla base trumpiana, immigrazione e ambiente su tutti. Provvedimenti finalizzati a dare corso al piano, draconiano e irrealistico, di espulsione di immigrati privi di permesso di soggiorno e di smantellamento dell’apparato regolamentatorio in materia di emissioni, inquinamento e standard energetici. Il corollario inevitabile è un drastico mutamento della politica industriale, con il contestuale tentativo di rilanciare l’estrattivo e di non mettere la re-industrializzazione al servizio della lotta al cambiamento climatico. I cortocircuiti, e le incognite potenziali, sono davvero molti, anche perché fu questo un ambito della prima esperienza presidenziale di Trump dove si assistette a uno scarto profondo tra promesse e risultati, con un sostegno flebile all’industria e la mancata realizzazione di un serio piano d’investimenti infrastrutturali. Probabile, o addirittura certa, sarà poi la reazione di Stati e municipalità controllati dai democratici, che come nel 2017 – dopo il ritiro degli Usa dalla COP21 – sfideranno su questo terreno l’amministrazione, accelerando i loro piani d’investimento e la loro specifica regolamentazione. Perché anche se vi fosse un contesto di governo federale unitario, con i repubblicani che controllano sia l’Esecutivo che il Legislativo, è prevedibile una dialettica tesa e conflittuale tra il potere federale e quelli statali. Una dinamica, questa, che abbiamo visto bene all’opera negli ultimi anni e che esprime un altro dei prodotti della polarizzazione politica, culturale e sociale degli Usa contemporanei e la fatica ormai evidente della loro democrazia.

[Fonte e Foto: ISPI]