I cristiani dell’India si frammentano, mentre aumenta la persecuzione

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Le differenze teologiche e le divisioni di casta continuano a dissanguare la comunità cristiana, con mille tagli. Ne riferisce John Singarayar su Uca News.

La frase spesso citata, “Chi legherà il gatto?” riassume bene la crisi dell’ecumenismo in India oggi.

In mezzo a un’atmosfera anticristiana crescente all’ombra del maggioritarismo indù, il “corpo di Cristo” in India sanguina, non solo per ferite esterne ma anche per fratture autoinflitte.

I cristiani indiani, sebbene una minoranza del 2,3 percento su una popolazione di 1,4 miliardi, rappresentano un mosaico di tradizioni: gli antichi cristiani di San Tommaso che rivendicano una storia apostolica, il cattolicesimo romano plasmato dalla missione portoghese, le denominazioni protestanti introdotte dai missionari occidentali e i movimenti pentecostali del XX secolo.

La questione non riguarda più la diversità o l’unità cristiana né la minaccia alla loro sopravvivenza in mezzo al maggioritarismo indù. La questione fondamentale riguarda la loro responsabilità morale: se la Chiesa è l’incarnazione di Cristo, in che modo la sua frammentazione aggrava la Sua sofferenza in un momento di crisi?

Dobbiamo esaminare criticamente le dimensioni storiche, teologiche e socio-politiche del fallimento ecumenico in India, sostenendo che senza affrontare le divisioni interne, la comunità cristiana rischia un’ulteriore emarginazione.

L’arrivo del cristianesimo in India è tradizionalmente datato alla missione di San Tommaso nel 52 d.C. Gli antichi cristiani siriani, basati nell’attuale Kerala, si integrarono nelle strutture di casta locali e mantennero distinte pratiche liturgiche fino a quando i missionari portoghesi imposero loro il sistema del rito latino nel XVI secolo, innescando la ribellione.

Più di cinque decenni di ribellione portarono al giuramento della croce di Coonan del 1653, che impegnava a respingere i missionari occidentali e a dividere la Chiesa. Quelli che si unirono per opporsi ai portoghesi si divisero ulteriormente, formando ora almeno sette chiese con sede nel Kerala che rivendicano la tradizione di San Tommaso.

La confusione teologica tra cattolici e protestanti, la loro competizione per i convertiti tra le caste inferiori e le popolazioni tribali, fratturò ulteriormente il panorama cristiano.

I movimenti evangelici, battisti e pentecostali arrivarono all’inizio del XX secolo, spesso finanziati da agenzie straniere. I loro sforzi di proselitismo tra comunità già cristiane portarono ad accuse di “furto di pecore”.

Queste fratture storiche, aggravate da identità sociologiche come casta, lingua ed etnie all’interno delle chiese, gettarono le basi per una risposta spesso ritardata e quasi sempre divisa, o per niente, ai problemi che i cristiani affrontano.

Fin dall’ascesa di un’identità indù comune durante l’India pre-indipendenza, i gruppi indù hanno chiesto leggi contro la conversione affermando che la conversione cristiana destabilizza la società indiana in quanto mina il sistema delle caste indù.

Il partito Bharatiya Janata Party (BJP) di ispirazione indù, che è arrivato alla ribalta politica e al potere con una schiacciante maggioranza nel 2014, ha intensificato la retorica anticristiana, inquadrando le conversioni come una minaccia all’identità nazionale.

I gruppi indù che sostengono il BJP hanno preso la vittoria elettorale come un mandato per promuovere la loro ideologia di stabilire una nazione indù.

Gli attacchi spaziano dalla violenza della folla (chiese in fiamme, aggressioni ai fedeli) alle molestie burocratiche tramite leggi anti-conversione in 12 stati. Queste leggi, che richiedono l’approvazione statale per la conversione religiosa, vengono trasformate in armi per criminalizzare il lavoro umanitario e il culto comunitario.

Ad esempio, in Chhattisgarh, i pastori pentecostali affrontano arresti arbitrari con false accuse di “conversione forzata”. La sentenza del 2024 dell’Alta corte dell’Uttarakhand che impone il controllo statale delle pratiche religiose erode ulteriormente le libertà costituzionali.

La persecuzione è anche sociale: i cristiani tribali o i convertiti dalit in Odisha affrontano boicottaggi economici e ostracismo sociale. Tuttavia, la risposta cristiana rimane frammentata, riflettendo divisioni teologiche e strategiche.

Il movimento ecumenico indiano, incarnato nel Consiglio nazionale delle chiese in India (NCCI) e nella Conferenza episcopale cattolica indiana (CBCI), ha lottato per colmare le lacune confessionali. Mentre la CBCI, che rappresenta 20 milioni di cattolici, enfatizza il dialogo con il governo, gli organismi protestanti tradizionali come la Chiesa dell’India settentrionale (CNI) sostengono la resistenza legale.

I pentecostali, spesso indipendenti, danno priorità all’evangelizzazione rispetto alle alleanze istituzionali, considerando la persecuzione come una guerra spirituale.

Questa dissonanza è stata evidente durante le rivolte di Kandhamal del 2008, in cui sono state uccise oltre 100 persone, per lo più cristiane. Mentre le istituzioni cattoliche fornivano rifugio, i gruppi evangelici hanno criticato la CBCI per aver “compromesso” con le autorità.

Allo stesso modo, durante la violenza del Manipur del 2023, in cui le tribù Kuki (per lo più cristiane) sono state prese di mira, le ONG confessionali hanno gareggiato per i fondi di soccorso, diluendo la difesa. Le differenze teologiche e le divisioni di casta continuano a sanguinare il Corpo di Cristo con mille tagli.

Le percezioni esterne complicano ulteriormente l’unità. I ​​nazionalisti indù dipingono il cristianesimo come una fede “straniera” nonostante le sue antiche radici indiane. In risposta, gruppi come la Chiesa siro-malabarese enfatizzano la loro identità swadeshi (indigena), prendendo le distanze dalle nuove denominazioni.

Le rivolte anticristiane di Kandhamal del 2008 sono un esempio del fallimento ecumenico. Dopo che le folle indù hanno preso di mira i cristiani, distruggendo 300 chiese e 6.000 case, la CBCI ha lavorato per la riabilitazione. Ma organismi evangelici come il Global Council of Indian Christians (GCIC) hanno pubblicizzato le atrocità a livello internazionale, facendo arrabbiare il governo federale.

Gli stessi organismi ecumenici sono afflitti da inerzia burocratica e rigidità gerarchica. L’NCCI, che comprende 30 chiese protestanti e ortodosse, lotta contro le rivalità confessionali. La CBCI, sebbene più centralizzata, dà priorità agli interessi cattolici, spesso mettendo da parte le iniziative interreligiose. Le donne e i laici rimangono sottorappresentati nella leadership, soffocando le prospettive di base.

Il costo della frammentazione è netto. Politicamente divisa, la piccola comunità cristiana sparsa in tutta l’India non riesce a formare un blocco di voto.

Socialmente, l’assenza di una narrazione unitaria consente ai nazionalisti indù di stereotipare i cristiani come convertiti violenti o agenti stranieri. I gruppi vulnerabili, come i Dalit e le tribù, soffrono in modo sproporzionato della loro doppia emarginazione per casta e fede.

Il “Corpo di Cristo”, segregato per casta, sanguina in silenzio.

A livello internazionale, i cristiani indiani non riescono a sfruttare efficacemente le reti globali, come si vede nella risposta smorzata alla Commissione statunitense per la libertà religiosa internazionale (USCIRF) che ha declassato l’India al livello più basso nel 2024.

Eppure, anche nella valle delle ossa secche, la speranza vacilla. La costituzione nel 2021 dell’United Christian Forum (UCF) per il monitoraggio dei diritti umani segna un passo incerto verso la collaborazione.

In Jharkhand, le coalizioni ecumeniche hanno contestato con successo le leggi anti-conversione in tribunale.

Teologi come Padre Felix Wilfred sollecitano di ripensare l’ecumenismo oltre le fusioni istituzionali, concentrandosi su imperativi etici condivisi: difendere la democrazia, aiutare i poveri e promuovere l’armonia interreligiosa.

I movimenti di base, come le veglie di preghiera ecumeniche durante gli attacchi, sono un modello di solidarietà. L’attivismo digitale, esemplificato dalla campagna #NotSilent durante la violenza del Manipur, colma i divari confessionali tra i giovani. Persino il sinodo del 2023 della CBCI ha riconosciuto la casta come un “peccato contro la comunione”.

Mentre Gesù Cristo sanguina nei perseguitati, la Chiesa indiana affronta una resa dei conti. L’ecumenismo non può rimanere un dialogo cortese tra vescovi; deve diventare una solidarietà radicale che smantelli la casta, condivida il potere e abbracci la vulnerabilità.

Il progetto di nazione indù dell’organizzazione parentale del BJP, Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS o corpo nazionale di volontari) prospera sulla divisione cristiana; ogni rivalità confessionale, ogni gerarchia di casta, diventa un’arma contro la Croce.

Per “legare il gatto”, la Chiesa deve affrontare la sua complicità nell’oppressione: spirituale, castista e coloniale. Ciò richiede più di dichiarazioni congiunte; richiede una costosa kenosi, un modello di auto-svuotamento da parte di Cristo, che ha sanguinato non per una fazione ma per tutti.

La scelta è chiara: unità o irrilevanza. All’ombra della forca, il Corpo di Cristo deve decidere se guarire o lasciare che l’emorragia continui.

In una nazione in cui il maggioritarismo cerca di cancellare il pluralismo, la sopravvivenza dei cristiani potrebbe dipendere dalla loro capacità di riaccendere lo spirito ecumenico, non come un ideale elevato ma come una necessità pragmatica.

[Fonte: Uca News (nostra traduzione); Foto: X.com/Uca News]