Il ruolo della Cina nella questione del debito dei Paesi poveri

Un rapporto del Lowy Institute mette in luce che Pechino nel 2025 dovrebbe incassare 22 miliardi di dollari di interessi sul debito dai Paesi che l’Onu classifica come più fragili. Una cifra molto più alta di quanto concede in nuovi prestiti. In 54 nazioni la Cina detiene più interessi da debito bilaterale di tutti i Paesi del Club di Parigi messi insieme. Dati significativi anche in rapporto all’appello alla cancellazione che papa Francesco aveva lanciato in occasione del Giubileo.
Di Giorgio Bernardelli, da AsiaNews
La questione del debito dei Paesi poveri è uno dei temi che papa Francesco ha voluto al centro del Giubileo, rilanciando nella bolla di indizione Spe non confundit l’appello “alle nazioni più benestanti” a “condonare i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli”. Così tra qualche settimana a Roma – il 20 giugno – la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali dovrebbe presentare un “libro bianco” elaborato da una commissione di esperti presieduta dal prof. Jospeh Stiglitz, premio Nobel per l’economia e docente alla Columbia University di New York, su alcune proposte di riforma dell’architettura finanziaria globale per dare risposte a questo problema che – come spiegavamo su AsiaNews già qualche mese fa – è tornato ad essere drammatico in molte aree del mondo.
Ed è dentro a questo quadro che appare molto interessante il rapporto presentato in questi giorni dal Lowy Institute – un think thank australiano che segue da tempo questi temi – e che mette al centro il ruolo cruciale svolto oggi dalla Cina nella questione del debito dei Paesi poveri. Il fulcro della ricerca è un dato di fatto: passati ormai gli anni dei prestiti concessi a piene mani nella prima fase della Belt and Road Initiative, oggi Pechino riceve ormai dai Paesi poveri molti più soldi in interessi sul debito rispetto ai nuovi crediti che annualmente eroga. Non è semplice dare delle cifre, perché uno dei grandi problemi e l’assoluta opacità che la Repubblica popolare cinese mantiene su questo tipo di operazioni (e anche la difficoltà di stabilire un confine tra quello che è debito bilaterale – cioè frutto di accordi diretti con il governo di Pechino – e i crediti concessi dalle banche commerciali cinesi che pullulano in questo mercato all’ombra di istituzioni pubbliche). Per questo il lavoro del Lowy Institute è prezioso, avendo con pazienza incrociato le fonti disponibili che si basano essenzialmente su quanto i Paesi debitori dichiarano davanti agli organismi internazionali.
Sulla base di queste stime il rapporto sostiene che nel 2025 la Cina dovrebbe incassare 35 miliardi di dollari di interessi sul debito; e di questi ben 22 miliardi di dollari sono legati a prestiti erogati a quelli che le Nazioni Unite classificano come i 75 Paesi più vulnerabili al mondo. Questo a fronte di un impegno di Pechino nel finanziamento allo sviluppo che dopo la pandemia è drasticamente sceso e negli ultimi anni si è attestato intorno ai 7 miliardi di dollari di nuovi prestiti all’anno.
Secondo il Lowy Institute la Cina si troverebbe oggi nella fase del picco della raccolta degli interessi sul debito, dal momento che sono giunti a maturazione i crediti erogati negli anni del boom della Belt and Road Initiative (nel solo 2016 Pechino mise sul piatto 50 miliardi di dollari in prestiti, una cifra più alta della somma di quelle stanziate da tutti i Paesi occidentali in quell’anno). Per questo – scrive il think thank australiano citando i dati riferiti dai governi debitori alla Banca mondiale – “la Cina oggi è il maggiore detentore di interessi sul debito bilaterale dei Paesi poveri, con una quota del 30% di questi pagamenti per il 2025”. Una situazione che “non ha precedenti per singoli creditori bilaterali negli ultimi 50 anni”. Per 54 dei 120 Paesi su cui sono disponibili stime “gli interessi sul debito dovuti alla Cina superano la somma di quelli dovuto ai Paesi del Club di Parigi (cioè i creditori occidentali ndr)”. E Pechino compare comunque “tra i primi cinque creditori in tre quarti dei Paesi in via di sviluppo”.
A questi dati va aggiunto un dato di contesto: negli ultimi anni nel mercato del debito internazionale dei Paesi in via di sviluppo è cresciuto molto il peso degli investitori privati rispetto al debito bilaterale. Secondo uno studio dell’Unctad pubblicato lo scorso anno banche e fondi di investimento avrebbero ormai in mano il 61% dell’intero debito, mentre quello bilaterale sarebbe sceso al 14%. Anche per questo, dunque, sarebbe cruciale avere più trasparenza da Pechino, per avere una fotografia davvero chiara della situazione.
Il rapporto del Lowy Institute si sofferma inoltre sulle strategie con cui la Cina continua a erogare i suoi prestiti. Rileva come – con la riduzione complessiva dovuta al rallentamento della sua economia – li abbia concentrati su tre direttrici: innanzitutto alcuni Paesi confinanti (Laos, Pakistan, Mongolia, Myanmar, Kazakistan, Kirgizistan e Tagikistan). Poi i Paesi strategici per la cosiddetta “One China policy” rispetto alla questione di Taiwan: negli ultimi anni, entro 18 mesi dal loro passo indietro rispetto a Taipei, Repubblica dominicana, Burkina Faso, Isole Salomone, Nicaragua e Honduras hanno tutti ricevuto un prestito da Pechino. Infine il terzo gruppo dei Paesi strategici per l’approvvigionamento di materie prime e minerali critici, come ad esempio Argentina (prima del governo Milei), Brasile, Repubblica democratica del Congo e Indonesia.
In questa situazione quale posizione assumerà la Cina di fronte al problema del debito dei Paesi poveri? Secondo il Lowy Institute oggi si trova a un bivio tra due spinte contrastanti. Da una parte c’è l’interesse politico ad adottare iniziative che allentino il peso di questi crediti, con l’obiettivo politico di rafforzare i legami con il Sud globale soprattutto in una congiuntura storica in cui Trump – anche attraverso i tagli a UsAid – sta spingendo gli Stati Uniti verso l’isolazionismo e l’Europa stessa appare ripiegata su sé stessa. Però Pechino deve fare i conti anche con la spinta di tipo opposto che arriva dal suo sistema finanziario, che di fronte alle difficoltà economiche interne spinge per il rientro di questi crediti.
La combinazione di queste due spinte opposte ha portato le autorità cinesi a scegliere finora la strada della dilazione dei tempi del pagamento degli interessi anziché quella del condono: è già successo, per esempio, negli accordi bilaterali firmati con Zambia, Laos e Repubblica democratica del Congo. Ma è una strada che l’esperienza passata dice non risolvere i problemi: si limita a rinviarli con il rischio di renderli ancora più gravi.
Nel frattempo nelle dichiarazioni pubbliche Pechino per ora preferisce minimizzare la questione. Rispondendo alla domanda di un giornalista sul rapporto del Lowy Institute, la portavoce del ministero degli Esteri Mao Ning l’altro giorno ha dichiarato: “La cooperazione della Cina in materia di investimenti e finanziamenti con i Paesi in via di sviluppo segue le pratiche internazionali, i principi di mercato e il principio della sostenibilità del debito. Alcuni Paesi stanno diffondendo la narrazione secondo cui la Cina sarebbe responsabile del debito di questi Paesi. Tuttavia, ignorano il fatto che le istituzioni finanziarie multilaterali e i creditori commerciali dei paesi sviluppati sono i principali creditori dei paesi in via di sviluppo e la fonte principale della pressione per il rimborso del debito. Le bugie non possono nascondere la verità”.
[Fonte: AsiaNews; Foto: Italia Informa]