Isis Khorasan, la nuova centrale del terrore
L’impatto informativo del cosiddetto Isis Khorasan (Isis-K), tristemente ritornato agli onori delle cronache con i suoi attacchi terroristici, è enorme. Come e più del Daesh di Al Baghdadi, questa struttura utilizza piattaforme social per attività di propaganda, reclutamento, finanziamento, divulgando in una decina di lingue oltre all’inglese e coprendo un ampio territorio dell’Asia centrale. Ne parla Enrico Campofreda, giornalista e scrittore, nel numero di giugno della rivista ecumenica Confronti.
Di Enrico Campofreda (da Confronti)
L’inquietante e sanguinaria operatività dell’Isis Khorasan (noto anche come IsisK) passibile, come tutte le organizzazioni para clandestine, d’infiltrazioni e strumentalizzazioni ha conosciuto due momenti: la fase precedente alla pandemia da Covid-19 e quella successiva. Non che i miliziani e i nuovi adepti si siano concentrati sulla prevenzione dai contagi, certo è che fra il 2020 e il 2021 la movimentazione di persone attraverso i confini nazionali, almeno quella costretta a transitare per porti e aeroporti, risultava bloccata o sensibilmente ridotta e questo ha prodotto un limite a una certa tipologia di attacchi. È vero che molte località dove operano i jihadisti sono aree orientali disastrate politicamente e spesso anche militarmente che non si sono interessate granché alla limitazione degli spostamenti e hanno potuto registrare ogni sorta di scorreria.
Ma è nel 2022 che l’attenzione delle maggiori agenzie d’intelligence riscontra una rilanciata operatività, sino ai sensazionali attacchi di cui si sono occupati i media mondiali come per il Crocus City Hall di Krasnogorsk alle porte di Mosca. Deflagrante, non solo per l’esplosivo usato, era stata anche la strage di Kerman a inizio anno, eppure l’informazione mainstream non andava al di là della cronaca, e della propagandistica di certo Occidente che considerava quel grosso attentato un «regolamento di conti fra terrorismi», rilanciando l’equivalenza fra jihadismo e Stato iraniano.
Come si sa quest’ultimo – e come la Russia, recente obiettivo dell’Isis-K – ha combattuto l’organizzazione fondamentalista islamica sul territorio siriano, certo secondo proprie logiche geopolitiche volte ad assecondare il regime di Assad, un’entità statale legittimata col terrore. Però quello è lo scacchiere in cui, dal 2014 al 2019, si sono mossi regimi e satrapi, imperialismi, coalizioni, eserciti nazionali e mercenari di varie sponde, dopo la grande depressione creata in tutto il Medio Oriente da vari interventi stranieri. Ricordiamo l’operazione Enduring Freedom (2001) voluta dal presidente statunitense George W. Bush, la Seconda guerra del Golfo (2003) sponsorizzata dal premier britannico Tony Blair, passando per l’intervento internazionale in Libia (2011) agognato dal presidente francese Nicolas Sarkozy. Insensate sciagure geopolitiche, oltre che inutili bagni di sangue specie di civili: oltre mezzo milione di morti nelle tre tappe.
Il nuovo terrorismo mondiale
Se si elucubra su chi organizza l’odierno terrorismo globale, spesso si dimentica l’effetto rimbalzo a talune cause d’impronta bellica, economicof inanziaria e di supremazia geopolitica tuttora imposte dalle democrazie occidentali. L’imperialismo è vivo e vegeto, con lui il colonialismo di ritorno e nella partita mondiale i protagonisti sono aumentati rispetto al sistema imposto un secolo fa dall’Accordo Sykes-Picot. Tutto ciò che era stato digerito e dimenticato tra le due Guerre mondiali e la successiva Guerra Fredda è riapparso alle soglie del nuovo millennio anche a seguito delle scelte vecchie e nuove. Discorrere del Khorasan, che i nutrizionisti riferiscono al grano turanicum, ricco di fibre, significa culturalmente richiamare l’antica regione persiana “dove origina il sole”.
E se nell’attuale Iran una provincia ha mantenuto fino a vent’anni addietro questo nome (ora è nota come Razavi Khorasan) specchiandosi nella città santa di Mashhad, era indicata come Grande Khorasan un’enorme area geografica che comprendeva quasi tutto l’odierno Afghanistan, parte degli attuali Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan, tacciati nel Novecento come Repubbliche sovietiche, ma in altre epoche territori appartenuti a greci, arabi, selgiuchidi, safavidi. Insomma nel Khorasan c’è passato un pezzo della Storia mediorientale e gli attuali miliziani che lo richiamano come denominazione d’un ipotetico califfato cercano di rievocare storicamente quanto di antistorico c’è nel loro programma.
Quel che ha mostrato lo Stato islamico nella prima fase della sua comparsa sul territorio siro-iracheno – per un buon periodo ampio più di 90.000 km2 – è stata propaganda sanguinaria, condita da un competente utilizzo della tecnologia e della tecnica di divulgazione, addirittura definita da taluni politologi “orwelliana”. Esperti di cinematografia notavano una meticolosa padronanza nel confezionare vere pellicole hollywoodiane con grafica, ritmo, alternanza di scenografie aggressive e discorsive per lanciare il proprio messaggio bellicistico, atto a diffondere paura e terrore. Gli scivolava accanto, sempre tramite filmati propagandistici, la visione utopica del proprio governo nel Califfato con cittadini sereni in mercati ricolmi di cibo e di una vita tranquilla sicuramente mai conosciuta, perché fra Raqqa e Mosul l’ampia coalizione anti Isis già nel 2015 lanciava attacchi di terra e bombardamenti dal cielo.
Eppure ben prima della disfatta e della ritirata da diverse zone di quel territorio, l’Isis marchiato Khorasan pensava a trovare spazi proprio in Afghanistan dove la guerriglia talebana metteva da anni alle strette le truppe Nato della Missione Isaf e l’esercito locale organizzato e addestrato dagli Stati Uniti. L’Isis-K si faceva forte del reclutamento del Movimento islamico dell’Uzbekistan, fondato nel 1991 dall’uzbeko Tahir Yuldashev e vicino ai talebani fino alla morte del mullah Omar, ma poi entrato in contrasto con loro giudicati “nazionalisti deviati”.
Talebani e Isis-k: parenti serpenti
Taliban e Isis-K ingaggiarono fra il 2016 e il 2018 un confronto a distanza a suon di auto e camionbomba, colpendo obiettivi governativi, caserme, ambasciate, hotel, aeroporti, università, moschee (esclusivamente sciite), piazze e mercati dove poveri civili finivano straziati. Lo facevano per attribuirsi il primato dell’agguato più cruento, del colpo più audace, del controllo più stretto di un territorio che l’ufficialità del presidente Ashraf Ghani non riusciva a gestire.
Fu un periodo di cieca violenza diffusa in diverse città che riportava alla mente l’insicurezza esistenziale seconda solo alla guerra civile dei primi anni Novanta, peraltro concentrata nella capitale, il cui controllo costituiva il fine primario di ogni Signore della guerra impegnato sul campo. Ingrossavano le fila del gruppo jihadista che si f irmava Khorasan diversi talebani in dissidio con la Shura di Quetta, rimasta fedele ai princìpi del fondatore mullah Omar. Mentre i dissapori, e non solo per la sua successione, erano in atto anche prima della sua definitiva dipartita, avvenuta nel 2013 (era da tempo affetto da tubercolosi) e ufficializzata solo due anni dopo. C’erano alcuni turbanti che guardavano più alla visione transnazionale di al-Qaeda, cui s’ispira l’Isis, che allo statalismo dei talebani afghani. In aggiunta clan doppiogiochisti particolarmente potenti e agguerriti, come quello Haqqani, brigavano per ostacolare le nuove leadership talebane – Mansour, Baradar, Akhundzada – e in queste crepe reclutavano nuovi adepti. Tra cui ex membri del Tehrik-i-Taliban Pakistan guidati dal gruppo tribale Orakzai che sconfinando si collocarono nelle province di Nangarhar, Kunar, Kunduz, Kabul.
Di fatto l’Isis-K e i taliban afghani se non possono considerarsi fratelli sono parenti, formatisi nelle stesse strutture, ma dal 2014 i primi sono fuoriusciti dai ranghi dando vita alla nuova aggregazione. Fra l’altro le etnie tajika e uzbeka, considerate di origine turca e minoritarie rispetto a quella pashtun incardinata fra la base logistica di Kandahar e quella ideologico-religiosa di Quetta, costituiscono stirpi che rivendicano propri spazi di fronte al rigido centralismo del gruppo sunnita hanafita.
Dopo la riconquista del potere da parte talebana (agosto 2021) e l’annuncio dell’Emirato afghano, gli Haqqani si sono ben accasati spartendo col Gotha ortodosso alcuni dicasteri: Sirajuddin quello dell’Interno, lo zio Khalil il ministero dei Rifugiati. I due fratelli di Sirajuddin: Aziz, formatosi nella madrasa pakistana Darul Uloom Haqqania considerata l’università del fondamentalismo deobandi, è rimasto un leader militare; mentre l’attuale trentenne Anas si è fatto le ossa nella delegazione che negoziava a Doha il ritiro statunitense e mira a funzioni diplomatiche. La loro scelta li ha definitivamente allontanati dal gruppo del Khorasan che lo scorso anno ha intrapreso azioni mirate contro esponenti talebani o governatori. È accaduto a Mohammad Dawood Muzammil, ucciso nel proprio ufficio di Mazar-e Sharif. S’è detto che si trattava di una vendetta seguita all’eliminazione del capo dell’intelligence dell’Isis-K, tal Qari Fateh. Sta di fatto che dopo la conquista di Kabul i taliban afghani hanno incarcerato alcune centinaia di miliziani del Khorasan e smantellato diverse loro cellule. Così l’Isis-K ha ripreso a colpire all’estero puntando l’obiettivo su russi e cinesi.
In precedenza (settembre 2022) c’era stato l’assalto suicida all’ambasciata russa di Kabul che uccise due dipendenti. La Russia costituiva un nemico antico contro il quale rinnovare offensive. Aveva già conosciuto macabri massacri d’impronta jihadista nella fattispecie dei separatisti ceceni: il teatro Dobrovska di Mosca (2002), la scuola di Beslan (2004), nell’Ossezia del Nord. Seguiti dagli attentati alle linee metropolitane di Mosca (2010) e San Pietroburgo (2017) e quest’ultima carneficina, che uccideva tredici cittadini in viaggio sui mezzi di trasporto pubblici, condusse all’identificazione come attentatore d’un giovane russo nato nel Kirghizistan, radicalizzato per frequentazioni con combattenti islamisti siriani.
Proprio questi agguati all’apparenza condotti singolarmente o da nuclei minuscoli ma egualmente capaci d’infilarsi nelle maglie per nulla selettive e protettive di cittadini e territorio, mostravano organismi più agguerriti di semplici “lupi solitari”.
La Russia così militarizzata, impegnata sugli scenari siriano e libico per tacere d’altro, si ritrova particolarmente vulnerabile in casa. Con 007 interni e agenti del Fsb (Servizio di sicurezza federale) magari capaci dei più misteriosi intrighi al servizio della politica del Cremlino, ma non di un eccellente filtro contro il terrorismo. I successi del suo operato sono ormai datati al 2015 quando venne eliminato Aliaskhab Kebekov, successore di Umarov nel cosiddetto “Emirato del Caucaso”. Ma di leader tajiki e uzbeki nulla, solo pedine esecutive.
Il serbatoio del terrorismo
La realtà è che lo jihadismo combattente ha orientato ancor più a Oriente il fulcro del suo reclutamento, i miliziani del Khorasan hanno una matrice diversa dai caucasici della lotta cecena. Quest’ultimi sono stati limitati e, almeno per ora, sconfitti, mentre nel cuore asiatico c’è un potenziale serbatoio copioso. Lo dimostrano i nuclei di tajiki attentatori reali e potenziali, come qualche sospettato fermato in via preventiva (uno anche in Italia). I dati provenienti da quel Paese, che ha più del 10% della sua popolazione emigrata, per la maggior parte proprio in Russia ma pure in Nord Europa, vedono giovani alla ricerca di denaro con lavori d’ogni sorta. Quello del killer prezzolato è decisamente estremo, eppure alcuni dei fermati per l’ultimo attentato di Mosca sostenevano d’aver ucciso per soldi, neppure tanti: cinquemila euro. Elemento non nuovo. I talebani ingaggiavano miliziani fra le truppe afghane, pagandoli il doppio della tariffa prevista dai governi Karzai e Ghani. E lo stesso Khorasan ha strappato combattenti ai taliban non sempre per furore fondamentalista. Il dio denaro è un motore che travalica leggi religiose.
Poi prevalgono anche orientamenti politici più o meno in voga. L’Uzbekistan che nell’ultimo decennio ha vissuto un’accelerazione economica e ha aperto canali turistici con l’Occidente, anche grazie alla straordinaria bellezza artistica di alcuni suoi luoghi di culto (le moschee di Samarcanda, Bukhara e Khiva), ha conosciuto un ritorno del jadidismo, accanto al jihadismo. Il jadidismo aveva rappresentato una sorta di modernismo islamico di lingua turca quando la Russia aveva ancora lo zar. Sotto l’attuale presidenza Shavkat Mirziyoyev, il governo di Tashkent idealizza questo pensiero, cercando con l’identità culturale di sottrarre vocazioni alla lotta armata.
Ma non c’è da sottovalutare l’impatto informativo che l’Isis-K s’è dato tramite l’Al-Azaim Media Foundation. Come e più del Daesh di Al Baghdadi, questa struttura utilizza piattaforme social (Facebook, Telegram, Tik Tok) per attività di propaganda, reclutamento, finanziamento, divulgando in una decina di lingue oltre all’inglese e coprendo un ampio territorio dell’Asia centrale. Fra gli obiettivi esposti, e per ora solo minacciati, anche una sorta di logoramento e sabotaggio delle infrastrutture energetiche (oleodotti e metanodotti) verso l’Asia e verso l’Europa. Qualche analista sostiene che per il futuro le prospettive appaiono nere più della loro bandiera, quasi da rimpiangere al-Qaeda.
[Photo Credits: Wilson Center]