L’India è ancora la più grande democrazia del mondo
Modi ha vinto le elezioni, ma non con la maggioranza che si aspettava. Il successo della coalizione dei partiti di opposizione dimostra che, nonostante le legittime preoccupazioni, l'India può ancora essere considerata la più grande democrazia del mondo. Questa l'analisi di Ugo Tramballi, Senior Advisor ISPI.
“L’alleanza I.N.D.I.A. e il Congress devono essere pronti ad accettare con gratitudine la loro inevitabile sconfitta, piuttosto che degradare la dignità della democrazia”, diceva Sudhanshu Trivedi, il portavoce nazionale del Bjp. Gli exit poll preannunciavano una vittoria di Narendra Modi ancora più ampia di quelle del 2014 e del 2019. La Borsa di Mumbai cresceva con prematuro entusiasmo.
Modi ha vinto di nuovo e sarà primo ministro per la terza volta consecutiva: vi era riuscito solo Jawaharlal Nehru, il fondatore dell’India contemporanea. Ma Rahul Gandhi, l’ultimo della dinastia dei Nehru-Gandhi tanto detestata da Modi e abbandonata dagli elettori nelle precedenti tornate elettorali, ha dimostrato che in India un’opposizione esiste.
Il Bjp preannunciava una vittoria da 400 seggi sui 543 della Lok Sabha, il Parlamento. Una maggioranza che avrebbe dato al partito nazional-induista la forza per modificare la Costituzione inclusiva voluta da Nehru e dal Mahatma Gandhi. Invece nel nuovo mandato quinquennale il Bjp manterrà la maggioranza solo con l’aiuto dei partiti dell’NDA, la National Democratic Alliance. Anche nel 2014 e 2019 li aveva inclusi nel governo. Ma numericamente poteva farne a meno. Questa volta no.
L’India è la più grande democrazia del mondo. È il prodotto della Costituzione scritta da B.R. Ambedkar. “L’India”, diceva, “è una collezione di minoranze” dagli uguali diritti: il contrario del suprematismo hindu del Bjp. Diversamente da tutti gli altri paesi asiatici che uscivano dall’era coloniale, Nehru aveva deciso che, a dispetto della sua estrema povertà, l’India avrebbe avuto un sistema democratico. Anche Clement Attlee, l’allora premier laburista britannico, non nascose il suo scetticismo sulla scelta di Nehru.
A queste elezioni avevano diritto di partecipare 968 milioni d’indiani. Sono andati alle urne “solo” in 642 milioni. “Un miracolo che non ha paralleli al mondo”, ha commentato Rajiv Kumar, il responsabile della Commissione elettorale. Il numero degli elettori indiani è una volta e mezzo quello dei paesi del G7 sommati; due volte e mezzo più degli elettori dei 27 dell’Unione Europea.
Ottomila 360 candidati di 744 partiti, più altre centinaia esclusi dalla Commissione elettorale; 15 milioni fra personale di sicurezza e addetti ai seggi; hanno votato 312 milioni di donne, il 43% dell’elettorato. È difficile non chiamare tutto questo un miracoloso esempio di democrazia.
È quel modo di essere democratico che Narendra Modi contava di controllare e ridurre, applicando come sta accadendo in altre parti del mondo, una forma di dittatura della maggioranza. Il pericolo non è passato: la maggioranza si è ridotta ma resta maggioranza, a meno che non cambino idea alcuni dei partiti alleati del Bjp. Senza necessariamente ritoccare la Costituzione – per la quale è anche necessaria la maggioranza semplice nelle assemblee della metà dei 28 stati dell’Unione – Modi potrebbe cercare di intaccare altri obiettivi che rendono salda la democrazia del paese. Per esempio, aumentando i deputati della Lok Sabha, dando un numero maggiore di seggi agli stati più popolosi. Quelli del Nord, il serbatoio elettorale del Bjp sono più poveri e sovrappopolati, rispetto agli stati del Sud: più ricchi, dalla demografia equilibrata e avversari del Bjp.
L’ambizione di Narendra Modi è sempre stata quella di ridurre l’autonomia degli stati e accentrare i poteri nelle mani del governo federale. Questi obiettivi sono ancora possibili. Ma ora ci sarà una vera opposizione: solida, compatta e finalmente determinata.
È probabilmente questo che ha aiutato il successo elettorale delle opposizioni. Nelle due precedenti, Modi ha vinto con numeri crescenti perché a dispetto degli oltre 700 partiti esistenti, ne mancava uno veramente nazionale. In diversi stati governano forze politiche regionali che alle elezioni nazionali si perdevano in una collezione di partiti singoli e deboli. Questa volta il Congress ha saputo costruire Indian National Developmental Inclusive Alliance: un nome respingente, probabilmente incomprensibile per 900 milioni di elettori. Ma attraente nel suo acronimo: I.N.D.I.A. Come se questa volta le opposizioni rappresentassero la vera India. Presentando finalmente una plausibile opposizione nazionale, il Congress e gli alleati hanno dimostrato che le ambizioni di Narendra Modi sono quanto meno contenibili.
Un’altra ragione dell’inaspettato successo è stata una campagna elettorale che le opposizioni hanno centrato sull’economia. Il successo vantato da Modi è reale ma incompleto. La disoccupazione giovanile continua ad essere alta, i poveri sono ancora più di 200 milioni; la distribuzione della ricchezza squilibrata, educazione, sanità e infrastrutture lontane dal supportare una demografia straripante. L’economia cresce ma per dare risposte a un miliardo e più di 400 milioni d’indiani non ne basta una al 7%.
[Questo articolo di Ugo Tramballi è stato pubblicato sul sito dell'ISPI, al quale rimandiamo; Photo Credits: ISPI]