Sì all’Islam, no allo Stato islamico. La via indonesiana alla convivenza interreligiosa
Nel grande Paese-arcipelago, recentemente visitato da Papa Francesco, si è radicata nella società civile una lettura pluralista della religione che ha permesso di arginare le derive estremiste. Anche lo Stato sta cercando di appropriarsene, mettendo però a rischio l’originalità di questo modello. Ne riferisce Michele Brignone per la Fondazione Oasis.
Il viaggio di papa Francesco tra Asia meridionale e Oceania, il più lungo di questo pontificato, ha toccato Paesi e realtà spesso ignorati dal nostro dibattito pubblico. Tra questi spicca l’Indonesia, gigante demografico e attore geopolitico emergente che raramente fa notizia. Eppure non mancano i motivi per guardare con interesse a questo grande Stato-arcipelago. L’Indonesia è infatti dotata di immense risorse naturali: è il primo esportatore di carbone e il principale fornitore globale di nickel, un materiale cruciale per la transizione energetica. Soprattutto, però, è il più popoloso Paese musulmano al mondo, con i suoi oltre 200 milioni di fedeli (l’87% della popolazione), oltre che un vero e proprio mosaico di etnie, culture e religioni. E nonostante questa varietà, ha saputo trovare un assetto capace di garantire una coesistenza tendenzialmente pacifica tra i diversi gruppi che lo compongono.
Francesco ha molto insistito su questo aspetto. Nel suo incontro con le autorità civili ha richiamato il motto nazionale indonesiano (“Uniti nella diversità”) e invitato a preservare lo spirito di fraternità che solo consente la convivenza armonica delle differenze. Durante l’incontro interreligioso presso la moschea Istiqlal, la più grande di tutta l’Asia, il Papa si è soffermato sul suggestivo “tunnel dell’amicizia” che collega il luogo di culto islamico con la cattedrale cattolica di Giacarta. Con il grande imam della moschea, Nasaruddin Umar, ha inoltre firmato una dichiarazione incentrata su due grandi crisi del mondo contemporaneo, la disumanizzazione e lo sfruttamento indiscriminato del creato.
Un elemento centrale del modello indonesiano è il peculiare rapporto tra Stato e religione. Nonostante l’imponente maggioranza islamica del Paese, la Costituzione non stabilisce uno statuto privilegiato per l’Islam, ma riconosce ufficialmente sei religioni (Islam, Cristianesimo cattolico, Cristianesimo protestante, Induismo, Buddismo e Confucianesimo). La filosofia ufficiale dello Stato, la pancasila, i cinque principi elaborati nel 1945 dal presidente Sukarno e poi recepiti dalla Costituzione, assegna inoltre un posto prioritario alla «fede nell’unico Dio», che dunque non è soltanto tollerata, ma attivamente promossa. Non a caso, secondo i sondaggi realizzati negli ultimi anni dal Pew Research Center, l’Indonesia risulta stabilmente tra i Paesi più religiosi al mondo.
Così, benché non sia incorporato nello Stato, l’Islam è molto presente nello spazio pubblico. Quest’ultimo è dominato da due grandi organizzazioni islamiche, la Muhammadiyya, di orientamento riformista, e la Nahdlatul Ulama, più tradizionale, che costituiscono il nerbo della società civile e che con le loro strutture educative hanno contribuito a radicare nel Paese una cultura religiosa pluralista. Tra gli anni ’90 e i primi anni 2000 entrambe sono state decisive nella transizione dalla dittatura alla democrazia. Protagonista di questa fase è stato il primo presidente democraticamente eletto dopo la fine dell’era Suharto, Abdurrahman Wahid, che prima di diventare capo dello Stato nel 1998 aveva guidato per 15 anni la Nahdlatul Ulama e incoraggiato la diffusione di un “Islam umanitario”.
Ma già nel 1970 l’intellettuale musulmano indonesiano Nurcholish Madjid aveva coniato una formula che ha poi finito per sintetizzare la visione maggioritaria dell’Islam indonesiano: «sì all’Islam, no al partito islamico». Più recentemente, in occasione delle celebrazioni per il primo centenario della Nahdlatul Ulama, fondata nel 1923, questa grande organizzazione ha proclamato che «restaurare un califfato universale che unisca i musulmani del mondo in opposizione ai non-musulmani non è né fattibile né desiderabile».
A caratterizzare l’Islam indonesiano è anche il ruolo che vi giocano le donne. A differenza dell’Islam arabo, che si è sviluppato in società fortemente patrilineari e ha finito per ratificare il primato maschile nella propria tradizione, in Indonesia prevale tra i musulmani una spiccata matrilinearità. Questo ha permesso una particolare valorizzazione della presenza femminile anche in ambito religioso. È per esempio significativo che nel 2017 l’Indonesia abbia ospitato un importante congresso di “ulama donne”, nel quale studiose provenienti da tutto il mondo musulmano hanno discusso di parità tra i sessi e di autorità religiosa femminile.
A questi tratti distintivi, negli ultimi anni si è aggiunta un crescente sensibilità per le questioni ecologiche. Vista la situazione del Paese, dove la grande ricchezza naturalistica è seriamente minacciata dallo sfruttamento umano, diverse autorità religiose hanno sviluppato una lettura ambientalista dell’Islam. Tra le personalità più attive in questo ambito figura proprio il grande imam della moschea Istiqlal di Giacarta, che nel luogo di culto ha fatto installare 500 pannelli solari e un sistema di riciclo dell’acqua, oltre ad aver mobilitato i fedeli per la pulizia del fiume che scorre dietro alla struttura.
La tradizione pluralista del Paese, tuttavia, non è del tutto al riparo da derive violente. Tra la fine degli anni ’90 e i primi anni 2000, durante la fase di transizione democratica nota come Reformasi, le isole Molucche hanno conosciuto un aspro conflitto tra cristiani, soprattutto protestanti, e musulmani. Nel 1999 è scoppiata la crisi di Timor Est, poi risoltasi con l’indipendenza di questo territorio prevalentemente cattolico. Negli stessi anni, anche il terrorismo jihadista ha preso di mira il Paese. Il giorno di Natale del 2000, un attacco pianificato dalla locale Jemaa Islamiyya, affiliata ad al-Qaida, colpì simultaneamente diversi luoghi di culto cristiani, e nel 2002 la stessa organizzazione perpetrò a Bali il più sanguinoso attentato terroristico della storia indonesiana. Più recentemente, nel 2015, la nomina a governatore di Giacarta del cristiano Basuki Tjahaja Purnama, meglio noto come Ahok, ha acceso un forte movimento di protesta, culminato due anni più tardi nell’incarcerazione dell’uomo con l’accusa di blasfemia.
Proprio per rispondere a quest’ondata di intolleranza, l’attuale presidente della Repubblica Joko Widodo ha adottato una serie di misure repressive nei confronti di movimenti e partiti islamisti, dopo essersi presentato alle elezioni del 2019 come il garante della tolleranza e della convivenza pacifica. Il rischio di fermenti estremisti pare sotto controllo, anche se è tutt’altro che svanito. Lo stesso Papa Francesco, nel suo intervento davanti alle autorità civili e al corpo diplomatico ha fatto riferimento alla sfida di «contrastare l’estremismo e l’intolleranza».
Proprio alla luce dell’esperienza indonesiana, sono sempre di più gli osservatori che si chiedono se questa possa diventare un modello anche per altri contesti. Lo ha fatto tra gli altri l’Economist, che in un articolo del 2023 ha presentato il Paese come un’oasi di moderazione. È indubbio che le autorità religiose indonesiane abbiano sviluppato una forte consapevolezza della specificità e anche della bontà della propria tradizione. Lo si è visto in occasione del 17° incontro del G20, ospitato proprio dall’Indonesia, che ha approfittato di questa vetrina anche per mettere in mostra la sua dimensione religiosa. Allo stesso tempo sono le autorità religiose del Medio Oriente a capire la rilevanza crescente del Paese. Meno di due mesi prima della visita del Papa, per esempio, anche il Grande Imam della moschea cairota di al-Azhar, co-firmatario con Francesco del documento di Abu Dhabi sulla Fratellanza umana, si è recato nell’arcipelago dell’Asia Meridionale. Ciò non toglie che il baricentro culturale e religioso del mondo islamico continui a trovarsi in Medio Oriente, come dimostra il numero di studenti indonesiani che si trasferiscono al Cairo o in Arabia Saudita per perfezionare la propria formazione religiosa.
Il modello indonesiano non è peraltro minacciato soltanto dall’estremismo. Esso rischia anzi di essere snaturato dalle stesse politiche messe in atto per contrastare questo fenomeno. Nel maggio di quest’anno, il presidente indonesiano ha emanato un decreto che consente, e di fatto offre, alle organizzazioni religiose di ottenere una concessione per lo sfruttamento di giacimenti minerari. Tale concessione è stata assegnata alla Nahdlatul Ulama e alla Muhammadiyya, mentre la Chiesa cattolica locale ha scelto di rinunciarvi. Si tratta di una misura che contrasta non soltanto con l’impegno ambientalista assunto da diverse personalità religiose, ma anche con la tradizione di autonomia delle organizzazioni religiose indonesiane. Era stato in particolare il già citato Abderrahman Wahid a insistere sulla necessità che la Nahdlatul Ulama svolgesse il proprio ruolo quale attore indipendente della società civile e non come un’istituzione dello Stato.
Il rapporto tra quest’ultimo e la Nahdlatul Ulama sta tuttavia cambiando da quando Joko Widodo ha assunto il potere. Nella sua lotta contro il fanatismo islamista, il presidente indonesiano si è infatti appoggiato sulle principali organizzazioni islamiche del Paese, e soprattutto sulla Nahdlatul Ulama, remunerandole con benefici di vario tipo. Se questo certifica l’impegno dello Stato per la preservazione della formula indonesiana, segnala anche un possibile appiattimento della sua originalità. Oggi sono diversi gli Stati musulmani che puntano a fare della moderazione e della tolleranza religiosa un marchio da esibire anche all’estero. La specificità indonesiana sta nel fatto che le letture pluraliste dell’Islam sono un patrimonio della società civile prima ancora che una politica decisa opportunisticamente dallo Stato. Sarebbe un peccato se questa specificità venisse meno.
[Fonte: Fondazione Oasis; Foto: Associazione Italia Asean]