Francia: Bayrou a fine corsa

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Il premier sfiduciato, il governo cade sulla legge di bilancio e l’Europa ora si teme il caos politico nella seconda economia dell’Eurozona. Il punto di Alessia De Luca per l’ISPI.

François Bayrou incassa non incassa la fiducia e, appena nove mesi dopo aver ricevuto l’incarico, conclude la sua esperienza da primo ministro del governo francese. L’esito di un voto che appariva scontato fin dalla vigilia si è materializzato con numeri che non lasciano alternative: la censura a Bayrou è passata con 364 voti a favore e 194 contro. Il quinto primo ministro in due anni ha fallito in un compito titanico: avrebbe dovuto consolidare le finanze dello Stato e stabilizzare l’economia navigando in un Parlamento spaccato e, in qualità di premier di minoranza, con la spada di Damocle di una mozione di sfiducia perennemente sul capo. La scommessa si è dimostrata troppo azzardata: né l’estrema destra del Rassemblement National, né il Partito socialista hanno voluto soccorrere il premier ed Emmanuel Macron. “Avete il potere di rovesciare il governo” ma non di “cancellare la realtà” ha detto il premier nell’ultimo disperato tentativo di fare leva sulla responsabilità dei partiti, mettendo in guardia sull’urgenza “vitale” per la Francia di risanare i conti pubblici, avvertendo che “le divisioni rischiano di avere la meglio” sull’interesse superiore della nazione. Il presidente francese ora dovrà cercare un nuovo primo ministro e si troverà sotto intensa pressione per sciogliere nuovamente il parlamento dopo la disastrosa dissoluzione del giugno del 2024. Macron ha escluso le dimissioni: la posta in gioco sulla scena internazionale, con l’Ucraina e il Medio Oriente, è troppo alta. Ma ora, le richieste di dimissioni non arrivano solo dal leader della sinistra Jean-Luc Mélenchon ma anche da alcuni esponenti della destra più tradizionalista. L’impressione è che, se anche si riuscirà a trovare un successore a Bayrou, ciò non servirà a rompere la situazione di impasse.

Politica o guerra fra bande?

La ‘missione impossibile’ che il settantaquattrenne centrista aveva accettato nel novembre scorso era la seguente: trovare una stabilità politica, la più duratura possibile, nonostante la complessa equazione determinata dalle elezioni legislative anticipate dell’estate 2024, che non avevano prodotto una chiara maggioranza nell’Assemblea Nazionale che si era invece spaccata in tre blocchi “in guerra civile tra loro”, come aveva denunciato l’inquilino di Matignon, rendendo fragile qualsiasi coalizione di governo. Un’instabilità senza precedenti per la V Repubblica, in un momento delicatissimo per il paese, in procedura di infrazione da parte dell’Ue e sorvegliato speciale di agenzie di rating e mercati. Oggi la Francia ha infatti il terzo debito pubblico più elevato d’Europa, superata soltanto da Grecia e Italia. Dopo nove mesi di montagne russe, e dopo aver formulato una proposta di bilancio per il 2026 con l’obiettivo di ridurre l’enorme deficit (116% del PIL), il 25 agosto Bayrou aveva chiesto il voto di fiducia. “Ho fatto quello che sono sicuro che andava fatto e non ho rimpianti” ha dichiarato ieri mattina, ribadendo il suo messaggio sulla gravità della situazione dei conti pubblici – che ai suoi occhi giustificherebbe uno sforzo di bilancio di 44 miliardi di euro per il 2026. Il premier dimissionario non ha risparmiato neanche una staffilata ai parlamentari “prigionieri degli slogan e dei partiti politici” e che oltre a non essere d’accordo su niente, “sono in guerra civile aperta e si mettono insieme per abbattere il governo”.

Il puzzle per la successione?

Con il destino di Bayrou ormai segnato, Macron – che non ha intenzione di sciogliere nuovamente l’Assemblea se non si troverà costretto a farlo – dovrà operare scelte difficili. Potrebbe vagliare per la successione a Bayrou uno dei suoi fedelissimi – i ministri Sébastien Lecornu (Difesa), Gérald Darmanin (Giustizia) o Catherine Vautrin (Lavoro) – ma tutti rischiano di essere immediatamente respinti dall’Assemblea nazionale, profondamente divisa. Qualcuno prevede un’apertura a sinistra, con la nomina del socialista Olivier Faure, che ha affermato la volontà di mettere in piedi “un governo di sinistra” che sia “di coabitazione” e compromessi. “Se non saremo a Matignon, saremo pronti a sederci al tavolo delle trattative, ma con il coltello tra i denti”, affermano i socialisti. Ma l’Eliseo deve tenere conto del veto di La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon, che ha convocato per mercoledì una manifestazione contro l’austerità con il movimento ‘Bloquons tout’ e successivamente della mobilitazione sindacale del 18 settembre. Dall’estrema sinistra all’estrema destra, il Rassemblement National spinge per nuove elezioni legislative anticipate, che pensa questa volta di poter vincere. Tutte le forze politiche prendono questa eventualità molto sul serio: RN ha già convocato il suo comitato elettorale e accelera la selezione dei candidati. Rimane solo un’opzione, formalmente esclusa dal campo presidenziale: le dimissioni di Emmanuel Macron.

L’Europa allo specchio?

Il resto del continente, intanto, assiste con terrore alla crisi della seconda economia più grande dell’eurozona. Nel bene e nel male, in questi mesi, la Francia ha cercato più di ogni altro paese europeo di scuotere Bruxelles dalla sua cronica inerzia e mostrare una qualche forma di leadership sulla scena internazionale. Quanto accaduto oggi a Parigi non potrà non pesare sui prossimi passi dell’Unione. Costretti da Trump con le spalle al muro e sotto ricatto di Putin, i 27 finora non hanno trovato né il coraggio  la determinazione necessari per difendere i propri interessi, in uno scenario internazionale sempre più minaccioso. Continuando a offrire all’Ucraina il proprio appoggio, ma in modo insufficiente a sopperire al progressivo disimpegno americano, e contrastando gli assalti delle big Tech ma senza impegnarsi sul fronte degli investimenti nei settori essenziali per non diventare marginali sullo scacchiere globale, l’Ue sembra aver scelto la strada della resistenza passiva. Lo dimostra il fatto che, a un anno dalla pubblicazione, solo una piccola parte delle raccomandazioni del rapporto di Mario Draghi è stata effettivamente attuata e che giovedì la presidente della Commissione Ursula von der Leyen si troverà a tenere uno dei discorsi sullo Stato dell’Unione più complicati del suo incarico, mentre è contestata dai gruppi della sua stessa maggioranza. Le sue difficoltà non sono poi così distanti da quelle di Parigi: “Entrambe – osserva Angelique Chrisafis  sul Guardian – riguardano la crisi di fiducia tra il popolo e i suoi rappresentanti politici” e l’impressione è che l’impasse francese rifletta quella dell’Europa intera.

Il commento di Antonio Villafranca, Vice Presidente per la Ricerca ISPI

“Bayrou è stato sfiduciato perché ha dovuto guardare in faccia la realtà: crescita bassa, debito alto. Per evitare il circolo vizioso, servirebbe stabilità politica. Ma questo è proprio ciò che manca alla frammentata politica francese. Inutile pensare a un altro governo: guadagnerebbe (forse) tempo, ma divisioni e instabilità rimarrebbero”.

[Fonte: ISPI; Foto: VeneziePost]