Helsinki e la diplomazia della pace. Buonomo: “recuperare quella logica multilaterale orientata all’interesse dei popoli”

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Il professore di diritto internazionale sull’appello del Papa: “Il valore di Helsinki consiste nell’aver dimostrato che la diplomazia non è solo appannaggio dei governi, ma anche frutto della volontà condivisa dei popoli e delle comunità”. L’intervista è di Giovanna Pasqualin Traversa per il Sir.

Mercoledì 30 luglio Leone XIV, al termine dell’udienza generale, ha rilanciato l’appello alla diplomazia come via privilegiata per risolvere i conflitti, evocando il 50° anniversario della firma dell’Atto finale di Helsinki che ricorre il prossimo 1° agosto. “Oggi, più che mai – le parole del Papa -, è indispensabile custodire lo spirito di Helsinki: perseverare nel dialogo, rafforzare la cooperazione e fare della diplomazia la via privilegiata per prevenire e risolvere i conflitti”. Il Sir ne ha parlato con Vincenzo Buonomo, professore di diritto internazionale presso la Pontificia Università Lateranense.

Professore, Papa Leone XIV ha rilanciato lo spirito di Helsinki come via privilegiata per superare i conflitti. E’ ancora recuperabile questo spirito, ed è applicabile oggi in un mondo così frammentato e polarizzato?
Lo spirito di Helsinki nasce in un contesto molto teso, simile per certi versi a quello odierno: il mondo era attraversato da conflitti locali e tensioni sistemiche, anche nella Regione mediorientale. Nel 1967, quando ebbe inizio il processo che portò all’Atto finale del 1975, in assenza di multilateralismo la diplomazia era spesso relegata ai cosiddetti “tavoli separati”, su base bilaterale. Helsinki fu un’iniziativa dal basso, promossa da Paesi in contrasto che decisero di superare le contrapposizioni e di costruire un terreno comune. Il processo successivo portò gradualmente ad accordi sul disarmo tra le grandi potenze dell’epoca, ad accordi che riguardavano il non uso di alcuni armamenti fino poi ad arrivare ai profondi cambiamenti degli anni ‘90, soprattutto nell’area centro-orientale dell’Europa, con tutti gli effetti che questi hanno avuto a livello planetario. Oggi potremmo replicare quella logica multilaterale, capace di superare divisioni geopolitiche e ideologiche, e soprattutto orientata agli interessi dei popoli, non solo delle potenze.

Dopo la Francia, anche Regno Unito, Canada e Portogallo hanno annunciato il riconoscimento dello Stato di Palestina entro settembre, in occasione della prossima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. Australia e Finlandia si sono espresse a favore della causa palestinese, pur senza formalizzare il riconoscimento. Alla luce di questo contesto, si può ancora parlare di un gesto simbolico, o si tratta di una svolta con rilevanti implicazioni geopolitiche e giuridiche?
Ha sicuramente una doppia dimensione: simbolica e politica. Il riconoscimento francese sembra incondizionato, mentre quello britannico, secondo le dichiarazioni del premier Starmer, è legato all’azione, in questo momento bellica, di Israele nella Striscia di Gaza. Storicamente, il Regno unito ha un peso non irrilevante nel dossier mediorientale: basti pensare alla Dichiarazione, il 2 novembre 1917, dell’allora Primo ministro Lord Balfour con la quale si consentivano gli insediamenti ebraici in Terra Santa, fermo restando i diritti religiosi e politici delle comunità preesistenti sul territorio. Il riconoscimento odierno può avere un impatto significativo, non tanto per la creazione immediata dello Stato palestinese, quanto per consolidare il diritto del popolo palestinese alla sovranità, stimolando un percorso che deve essere multilaterale e negoziato.

Questo gesto potrebbe accelerare la soluzione diplomatica del conflitto israelo-palestinese, oppure rischia di inasprire le divisioni? 
Dipende da come viene interpretato e accompagnato. Lo spirito di Helsinki ha insegnato alla diplomazia come tutti gli atti, anche quelli meno rilevanti, possano costituire uno strumento essenziale per poter giungere alla conclusione pacifica di un negoziato. Dovremmo leggerlo in questa stessa logica: nello spirito di Helsinki ogni azione, anche apparentemente modesta, può generare aperture e nuovi equilibri. Se i riconoscimenti si inscrivono in un percorso di dialogo e inclusione, possono rappresentare uno strumento utile a disinnescare rigidità. Diversamente, se sono percepiti come provocazioni unilaterali, rischiano di irrigidire le posizioni.

La Santa Sede ha riconosciuto lo Stato di Palestina fin dal 2016, come ha ricordato un paio di giorni fa il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin. Che ruolo sta giocando oggi la diplomazia vaticana in questo scenario?
Parolin è stato molto chiaro ricordando che l’accordo bilaterale del 2015, entrato in vigore nel 2016, tra Santa Sede e Stato di Palestina, preceduto nel 2000 da un accordo quadro con l’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina, ndr), sancisce il pieno riconoscimento dello Stato di Palestina, e dimostra che è possibile avanzare anche quando il contesto internazionale è sfavorevole. Il cardinale ha ribadito la visione vaticana: due Stati che vivano fianco a fianco, in autonomia ma anche in collaborazione e sicurezza. In ogni caso, la Santa Sede continua a promuovere il dialogo e la cooperazione come strumenti di pace muovendosi in una dimensione inclusiva che tiene presenti entrambe le realtà: Palestina e Israele.

Quindi possiamo ancora guardare allo spirito di Helsinki come a una bussola per la pace globale?
Sì. Il vero valore di Helsinki consiste nell’aver dimostrato che la diplomazia non è solo appannaggio dei governi, ma anche frutto della volontà condivisa dei popoli e delle comunità. È un paradigma che invita alla pazienza, al dialogo continuo, e alla costruzione di percorsi comuni, anche tra avversari storici; una metodologia che ha dato frutti e può continuare a farlo.

[Fonte: Sir; Foto: Wikipedia/Sturm Orst/Bundesarchiv]