Il Nagorno-Karabakh di nuovo in fiamme. Appello del Papa perché "tacciano le armi" e si trovino "soluzioni pacifiche"

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"Ieri mi sono giunte notizie preoccupanti dal Nagorno-Karabakh, nel Caucaso Meridionale, dove la già critica situazione umanitaria è ora aggravata da ulteriori scontri armati", ha detto oggi papa Francesco al termine dell'udienza generale in Piazza San Pietro. "Rivolgo il mio appello accorato a tutte le parti in causa e alla Comunità internazionale, affinché tacciano le armi e si compia ogni sforzo per trovare soluzioni pacifiche per il bene delle persone e il rispetto della dignità umana", ha aggiunto il Pontefice. Sulla situazione nell'enclave rivendicata dagli armeni in territorio azero leggiamo la ricostruzione di Vladimir Rozanskij su AsiaNews. Gli scontri sono esplosi proprio mentre un convoglio organizzato dalla Croce Rossa internazionale riusciva a raggiungere l'enclave isolata da mesi. La campagna militare lanciata da Baku dopo aver accusato Stepanakert di sabotaggio. Fonti armene parlano già di 27 morti. Tensione anche a Erevan dove nel mirino c'è il premier Pašinyan.

Proprio mentre sembrava aprirsi uno spiraglio nella tratta del corridoio umanitario, la situazione nel Nagorno Karabakh è precipitata di nuovo, secondo lo schema classico del conflitto di confine tra armeni e azerbaigiani. Dopo tre mesi di blocco totale (e a nove dall’inizio della crisi sul corridoio di Lačin che unisce l’enclave all’Armenia) erano state fatte finalmente passare 23 tonnellate di farina e prodotti vari, organizzate dalla Croce Rossa internazionale con Russia e Svizzera. Contemporaneamente, però, da Baku sono giunte anche accuse di un sabotaggio bellico armeno, rifiutate subito da Stepanakert come “la solita disinformazione”.

Il Servizio nazionale di sicurezza dell’Azerbaigian ha accusato alcuni reparti armati di essersi introdotti al km 58 dell’autostrada Akhmedbejli-Fuzili-Shusha, sistemando una mina anticarro che avrebbe causato la morte di due civili. Baku parla anche di altri quattro poliziotti azeri che sarebbero stati uccisi da una mina su un’altra strada, quella che porta nella provincia di Gadrutsk attraverso la galleria di Tagavard, mentre la polizia cercava di “raggiungere i terroristi”. Sulla base di questo l’esercito dell’Azerbaigian ha lanciato ieri un’estesa campagna militare in Nagorno Karabakh: forze militari hanno preso d’assalto le linee di difesa dell’enclave armena mentre Stephanakert è stata presa di mira dal fuoco dell’artiglieria. Fonti armene parlano di 27 morti in poche ore tra cui almeno due civili e oltre 130 feriti.

La situazione sta dunque nuovamente sfuggendo di mano. La Croce Rossa internazionale ha espresso la sua profonda preoccupazione per l’impatto sui civili dell’escalation militare. “Chiediamo a tutte le autorità militari di fare il possibile per proteggere la vita dei civili - ha scritto in una nota - e di rispettare i principi di distinzione, proporzionalità e precauzione, in linea con gli obblighi previsti dal diritto internazionale umanitario”.

Anche dalla Russia arrivano appelli per fermarsi, e garantire la sicurezza delle forze russe di interposizione, mentre il ministero della difesa di Baku sostiene di aver creato corridoi umanitari e punti di accoglienza per evacuare la popolazione dalla zona pericolosa, mentre verrebbero attaccati “solo obiettivi militari legittimi”. Ma - in maniera eloquente - per gli azeri l’unica via verso la pace nella regione sarebbe “il completo ritiro dell’esercito armeno dal Karabakh e lo scioglimento dello pseudo-regime di Stepanakert”.

La tensione è arrivata anche a Erevan, dove le forze di polizia si sono schierate a protezione del palazzo del governo, in previsione di ulteriori proteste della popolazione contro la condotta ritenuta troppo “remissiva” dell’esecutivo guidato da Nikol Pašinyan, che ha cercato di consultarsi con Macron e Biden sulle vie per stemperare il conflitto. Tutto questo avviene dopo tre mesi di stallo, in cui le vie erano bloccate e non si riusciva a trovare alcuna soluzione, spingendo l’Armenia a rivolgersi sempre più altrove rispetto a Mosca e Baku.

I carichi arrivati in questi giorni erano stati invece “sincronizzati” dalle due direzioni dei corridoi di Lačin e Agdam, da una parte la farina e i generi alimentari, dall’altra medicinali e prodotti d’igiene di derivazione russa e svizzera. La Croce Rossa ha sottolineato che il blocco era stato superato “grazie a sforzi diplomatici molto insistenti”, ma l’Azerbaigian ha negato che si trattasse di un “cedimento della sovranità di frontiera”. Si sarebbe trattato solo di una “dimostrazione della buona volontà” del governo di Baku, secondo le dichiarazioni del ministero degli esteri, mentre si ammassano nuove truppe azere nella zona.

Il direttore armeno del Centro di studi caucasici, Ovik Avanesov, è uno degli esponenti armeni che si è espresso più chiaramente contro l’apertura della tratta di Agdam, mentre alla popolazione armena del Nagorno Karabakh serve solo l’accesso libero al corridoio di Lačin. Per questo motivo i carichi umanitari sono stati trattenuti per alcuni giorni, e gli episodi di sabotaggio sarebbero conseguenza di questa interpretazione contrastante delle “aperture”.

Avanesov ritiene che l’unico scopo degli azeri rimane la cacciata di tutti gli armeni dalla zona: “il blocco continuerà e i problemi umanitari non verranno risolti, perché l’Azerbaigian continuerà a impedire il libero accesso da tutte le parti anche dopo le aperture singole, è il loro modo di fare”. Se Baku otterrà il riconoscimento dell’accessibilità dalla parte di Agdam, la linea di comunicazione diretta con l’Armenia tramite Lačin rimarrà impedita per sempre, secondo quanto lamentano gli osservatori armeni, non solo per i carichi umanitari, ma anche per il commercio e le persone.

(Fonte: AsiaNews - Vladimir Rozanskij; Foto: Wikipedia)