Srebrenica, trent’anni dopo: il silenzio ufficiale serbo e la lotta per la memoria

Di Camillo Cantarano, giornalista, da Confronti
A trent’anni da Srebrenica, il presidente serbo Aleksandar Vučić ricorda l’evento in un tweet in inglese e senza menzionare esplicitamente il genocidio. In Serbia, le istituzioni mantengono un profilo basso, lasciando che siano attivisti e artisti a farsi carico della memoria. Il tema resta ancora un tabù, tra silenzi ufficiali e una società divisa.
«Trent’anni fa, nella giornata di oggi, venne commesso il terribile crimine di Srebrenica. Non possiamo cambiare il passato, ma abbiamo il dovere di cambiare il futuro. Esprimo le mie condoglianze ai cittadini della Bosnia, sperando che la storia non si ripeta». Questo tweet è stato pubblicato l’11 luglio da Aleksandar Vučić, presidente della Repubblica di Serbia, il giorno del trentennale della strage di Srebrenica. Ottomila persone furono uccise solo perché non in linea col progetto di Velika Serbia – “Grande Serbia” – del presidente Slobodan Milošević.
Per Vučić al potere è la tredicesima commemorazione di Srebrenica, prima come premier – dal 2012 al 2017 – e poi come presidente della Repubblica. Al di là delle apparenze, questo messaggio mostra tutte le sue difficoltà a fare i conti col passato. Il tweet di Vučić è scritto in inglese, una lingua che molti familiari delle vittime di Srebrenica non conoscono. Eppure, il serbo e il bosniaco sono lingue facilmente comprensibili tra loro, quindi se il messaggio fosse stato davvero rivolto a loro, avrebbe potuto usare una delle due. Questo fa pensare che il vero destinatario del tweet non siano i parenti delle vittime, ma la comunità internazionale, alla quale Vučić cerca di apparire più credibile e rispettabile.
Inoltre, a livello interno, il governo è rimasto silenzioso. Nessuna commemorazione ufficiale c’è stata, e sono stati pochi i messaggi di cordoglio – soprattutto frasi di circostanza, senza mai nominare la parola “genocidio” –. Così, sono stati artisti e Ong a farsi carico della memoria della strage, con una performance del collettivo “Donne in nero” (Žene u crnom) – un gruppo pacifista e femminista nato a Belgrado nel 1991, all’inizio delle guerre jugoslave, che si è impegnato in una resistenza nonviolenta contro la guerra e il nazionalismo aggressivo – in piazza della Repubblica a Belgrado. Una realtà molto diversa dagli anniversari dei massacri della Seconda guerra mondiale, quando tutta la nomenclatura del Sns – il Partito progressista serbo di Vučić – è schierata al completo e le tv filogovernative trasmettono a reti unificate discorsi di commiato.
È anche importante la scelta del termine “terribile crimine”, e non “genocidio”. «Terribile crimine, da un punto di vista legale, non significa nulla», ci dice Massimo Moratti, che a Srebrenica ha lavorato per undici anni e che oggi lavora sia nella cooperazione internazionale che come giornalista dell’Osservatorio Balcani e Caucaso. «Abbiamo crimini contro l’umanità, di guerra e il genocidio. “Terribile crimine” non rientra in nessuna di queste categorie. Restando sul vago, Vučić può negare le responsabilità serbe per Srebrenica».
La retorica dell’“eroica sconfitta”
«Tutte le menzogne del mondo non possono seppellire la verità», aveva detto Milošević al Tribunale dell’Aia. Sosteneva di aver fatto tutto quello che era giusto e legale per proteggere la Serbia dall’“islamizzazione”. Trent’anni dopo, in molti la pensano come lui. Intanto, si è creata negli ambienti nazionalisti – una minoranza, ma molto rumorosa – il mito dell’“eroica sconfitta” della Serbia: un’idea che affonda le radici nella battaglia della Piana dei Merli del 1389, in cui il Regno serbo fu sconfitto dagli Ottomani. Questa sconfitta è stata trasformata, nella memoria collettiva serba, in un simbolo di sacrificio e martirio nazionale. Nel 1989, in occasione del seicentesimo anniversario, Slobodan Milošević tenne un discorso solenne al Gazimestan – il monumento commemorativo della battaglia –, sfruttando quel mito per alimentare il nazionalismo serbo. In un contesto di crescenti tensioni etniche e politiche nella Jugoslavia socialista, Milošević usò quella narrazione storica per rafforzare il consenso interno e giustificare politicamente il ruolo della Serbia nelle guerre jugoslave che sarebbero esplose poco dopo. Ancora oggi il Paese pullula di murales e iscrizioni apologetiche dei criminali di guerra. Gli ex militari degli anni Novanta godono di un enorme prestigio: ricevono premi, vengono chiamati a fare lezione nelle scuole.
Alle frasi di Milošević, Vučić ha aggiunto una nuova dottrina: «I serbi non sono un popolo genocida». Un argomento portato nel dibattito pubblico dall’Onu, che ha designato nel 2024 l’11 luglio come Giornata della commemorazione del genocidio di Srebrenica. Nel maggio 2024, in vista del voto all’Onu per l’istituzione della Giornata, in Serbia e nella Republika Srpska si è sviluppata una forte campagna di opposizione alla risoluzione. Nonostante il testo escludesse esplicitamente ogni idea di colpa collettiva, la narrativa dominante ha insistito nel dipingere il popolo serbo come vittima di un’ingiusta accusa internazionale. Lo slogan “Non siamo un popolo genocida” è stato ripetuto ovunque: dai media ai palazzi istituzionali, fino ai graffiti nelle strade, e rilanciato da autorità politiche e religiose. La campagna ha coinvolto la televisione pubblica, i principali giornali e persino la Chiesa ortodossa serba, in un’azione coordinata che ha usato la retorica dell’orgoglio nazionale per contrastare il riconoscimento ufficiale del genocidio di Srebrenica. Quando le abbiamo chiesto se esista una “responsabilità collettiva” per il popolo serbo, Jelena Krštićić – vicedirettrice esecutiva del Fond za Humanitarno Pravo (“Fondo per il diritto umanitario”), la più importante Ong serba che indaga sui crimini serbi nelle guerre balcaniche – ha risposto: «Per molti “responsabilità collettiva” significa “colpa collettiva”. Ma questo è esattamente il discorso del governo: se è genocidio, l’intero popolo serbo è genocida», dice Krštićić. «Non pensiamo che siano responsabili le persone, ma il governo, i militari dell’epoca e chi li ha protetti».
Processi fermi
Per tornare al potere, Vučić ha solleticato le velleità di un popolo di reduci e cittadini comuni che vedevano la sconfitta nelle guerre balcaniche come un’umiliazione per lo spirito nazionale serbo. Nei primi anni di governo, il presidente ha compiuto gesti dal grande valore simbolico, come la visita a Srebrenica per il ventennale della strage, nel 2015, – la prima di un leader dell’estrema Destra serba.
A livello interno, però, si è mosso in modo diverso: ha lavorato per riabilitare le azioni dell’esercito serbo, presentandole come “legittima difesa” di un popolo vittima di una cospirazione americana ed europea. Anche i criminali di guerra sono stati riabilitati: molti di loro – fra cui Vojislav Šešelj, il mentore politico di Vučić che, dopo essere stato dichiarato colpevole, nel 2018, di crimini contro l’umanità si è dichiarato “orgoglioso” e di essere pronto a ripeterli in futuro – sono rimasti in parlamento anche dopo condanne molto pesanti. Oggi, i pochi pentiti sono sistematicamente ignorati dai media serbi, che sono sotto uno stretto controllo governativo. «Il Governo silenzia qualsiasi notizia non favorevole alla classe politica attualmente al potere», dice Krštićić.
Sarebbe responsabilità della Serbia processare queste persone, ma la situazione è complicata: dall’ascesa di Vučić, tribunali serbi e bosniaci hanno smesso di collaborare. Inoltre, molte di queste persone vivono nella Republika Srpska e hanno la doppia cittadinanza serbo-bosniaca. Quando un tribunale bosniaco apre un’indagine, spesso l’imputato fugge in Serbia. Lì trova la protezione che gli serve: il Paese ha una legge contro l’estradizione dei propri cittadini, la giustizia lavora molto lentamente e molti processi finiscono in un vicolo cieco.
Speranze per il futuro
Malgrado Srebrenica sia un tema tabù in Serbia, alcuni segnali in controtendenza si iniziano a osservare. Intanto, diversi membri dell’ex esercito serbo iniziano a rompere il muro del silenzio e a mostrare un sincero pentimento.
Il più importante è proprio Radislav Krštić, il generale delle armate della Drina a partire dal 1995 e organizzatore di Srebrenica, che nel 1998 è stato condannato a 46 anni di prigione – poi ridotti a 35 – per crimini di guerra. Nel novembre scorso, ha pubblicato una lettera in cui ha ammesso le responsabilità per aver guidato le armate che hanno commesso una strage e per aver aiutato e supportato il genocidio, ben sapendo che diversi dei suoi uomini avessero l’intenzione di commetterlo. Ha inoltre confessato gli atti di pulizia etnica messi in piedi dall’esercito, oltre all’uso sistematico di tortura, omicidio e stupro come armi d’offesa.
C’è poi la novità del movimento degli studenti. Malgrado alcune contraddizioni interne, dovute alla sua eterogenea natura ideologica – al suo interno si trovano nazionalisti, liberali, europeisti e apolitici – la ricerca di una narrazione da contrapporre a quella di Vučić potrebbe modificare anche la percezione di Srebrenica.
«A Pasqua, un veterano è uscito allo scoperto con gli studenti. Ha detto: “Sono stato fregato dalla propaganda, mi hanno mandato a fare una guerra che non volevo fare. E così, mi hanno rubato la gioventù”», dice Moratti. Aggiunge poi: «Sarà difficile “fregare” la nuova generazione: hanno accesso alle fonti in inglese e sono molto critici. Non penso accetteranno facilmente la propaganda del Sns».
Lottare per gli spazi
Quando chiediamo a Krštićić e a Moratti se ci sono monumenti che ricordano Srebrenica, la risposta è un laconico “No”. Il collettivo Krokodil, in occasione del trentennale, ha inaugurato un monumento sotto il Brankov most, uno dei ponti di Belgrado. Si tratta di una pietra, con il numero delle vittime e l’iscrizione “le persone ricordano le persone”. «Ma dopo poche ore, i membri della Naradno Patrol, una formazione di estrema Destra, hanno vandalizzato la pietra con iscrizioni nazionalistiche in serbo. Abbiamo ripulito, ma dopo poche ore hanno rifatto la stessa cosa».
La Naradno è anche autrice di uno dei murales più sinistri di tutta Belgrado, un’enorme scritta: “L’unico genocidio nei Balcani è stato commesso contro i serbi”. Il Fond za Humanitarno Pravo e altre associazioni di attivisti hanno cancellato più volte la scritta, che però è sempre ricomparsa.
«Questi murales sono funzionali alla propaganda del governo», dice Moratti. «L’Sns può prendere le distanze e dire che non sono loro i responsabili, ma non fanno nulla per cancellarli. Schierano solo la polizia quando gli attivisti cercano di coprirli, per evitare incidenti». A Belgrado si lotta per ogni muro, e il Fond non ha intenzione di arretrare: «È un monumento fatto dai serbi per i serbi, è unico nel suo genere. Non ci fermeremo».
SREBRENICA
Nel luglio 1995, 8mila persone persero la vita a Srebrenica, enclave bosniaca in un’area a maggioranza serba. Un massacro orchestrato dalle armate della Drina. Nella città, designata dall’Onu come “zona sicura”, avevano trovato rifugio decine di migliaia di profughi bosniaci. Della sicurezza si sarebbero dovuti occupare i caschi blu dell’Onu. Ma il 6 luglio, il generale Ratko Mladić ordinò l’assedio di Srebrenica, che venne presa l’11. I Caschi blu non intervennero.
Mladić e i suoi vice Radislav Krštić e Milenko Živanović – giudicato innocente dalla giustizia serba lo scorso 5 luglio dall’accusa di aver ordinato lo sfollamento forzato della popolazione bosniaca dalla “safe area” di Srebrenica – iniziarono subito a separare donne e minori di dodici anni dagli uomini. Vennero spediti in luoghi isolati, torturati e poi uccisi.
Il mancato intervento è sempre stata una macchia per la reputazione dell’Onu. Un massacro che si poteva evitare, secondo Moratti. «Se si fosse intervenuti nel 1992, quando furono scoperte le prime fosse comuni, non avremmo avuto Srebrenica, il bombardamento di Belgrado del ’99 o la guerra in Kosovo».
IL CASO JASIKOVAC
Miomir Jasikovac, ex comandante delle armate di Zvornik, è responsabile della morte di circa 2.300 persone a Srebrenica: si occupava, con la sua unità, del rastrellamento e dell’esecuzione dei bosniaci. Nel 2022, la Bosnia apre un procedimento contro di lui per genocidio. Jasikovac ripara immediatamente in Serbia, e Belgrado apre un procedimento parallelo: verrà condannato a 5 anni di carcere per i crimini commessi e la sentenza serba riduce significativamente il numero delle vittime imputate a circa 300, senza menzionare né Srebrenica né il reato di genocidio.
Anche i media e la politica scelgono attentamente le date da commemorare. Se il trentennale di Srebrenica è stato ricordato in tono minore, c’è stata una grande enfasi per le ricorrenze delle stragi della Seconda guerra mondiale contro i serbi, mentre le condanne ai criminali serbi non sono state riportate. Questo si ripercuote sulla percezione collettiva della guerra: «Esiste un’abitudine mentale a silenziare i processi come rumore di fondo e a dire che tutto è inventato. Stessa cosa quando vengono aperte le fosse comuni: la stampa pro-governo non c’è», dice Moratti. L’impressione è che quando si parla di crimini di guerra, una parte non marginale dell’opinione pubblica serba si schieri per l’ipotesi del complotto internazionale contro la Jugoslavia – che corrisponde alla Serbia – o parli dei crimini commessi dalla Nato.
[Fonte: Confronti; Foto: Confronti/Srebrenica Genocide Memorial (Bosnia ed Erzegovina) © miketnorton, CC BY 2.0, via Wikimedia Commons]