Caritas Albania, il modello Gjadër “non è umano, non può e non deve durare”

Intervista di Tra Cielo e Terra con la responsabile dell’Ufficio Migrazione dell’organismo ecclesiale.
Di Antonella Palermo
“Vivere in una gabbia non è umano”. Così Ariela Mitri, responsabile dell’Ufficio Migrazione di Caritas Albania, sintetizza in un colloquio con Tra Cielo e Terra, l’insensatezza del Centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) di Gjadër, realizzato nell’ambito del protocollo tra Italia e Albania.
“Devi dare alle persone una possibilità, una speranza per una vita migliore e più sicura”, afferma Mitri che illustra le attività portate avanti negli ultimi dieci anni dall’organismo ecclesiale in linea con l’invito di Papa Francesco ad accogliere, integrare, proteggere e accompagnare i migranti. “Gjadër è un’altra realtà”, afferma Mitri che sottolinea le peculiarità di “un modello pilota che, se dovesse funzionare, nelle intenzioni di chi lo ha concepito potrebbe essere applicato anche altrove in Europa”. Ma, secondo lei, “non ha futuro e non deve averlo”. Rammenta che “l’Albania ha dato il terreno ma sul modello, sulla struttura, sulle condizioni non c’entra niente il governo di Tirana. Tutto è gestito dall’Italia, nessun altro è coinvolto. Se, dopo la prima identificazione, si decide che la destinazione della persona è Gjadër, allora si procede mandandola in quello che, di fatto, è un centro di detenzione, non di accoglienza. Là le persone aspettano il loro destino”. La responsabile dell’ufficio Caritas insiste sulla “stranezza” di una procedura del genere, “perché a livello legale, se le persone hanno scelto l’Italia come destinazione, devono venire in Italia, non possono essere spostate. Nel caso di rimpatri dovrebbero ripartire dall’Italia, quindi essere riportate sul suolo italiano e da qui essere rispedite verso il proprio Paese, e non ha senso questo andirivieni”. Una prassi svuotata delle garanzie minime e che per di più ha costi tali che la rendono ancora più assurda. Ne è convinta Mitri che ricorda come si tratti di un modello sulla linea del progetto analogo, fortunatamente risoltosi in un nulla di fatto, già ipotizzato quando la Gran Bretagna voleva dirottare i migranti, tra cui anche degli albanesi, in Rwanda: “una cosa scandalosa”. Fa notare, inoltre: “Ci sono state delle riunioni, dei confronti su quella proposta, che poi è tramontata; in questo caso, invece, l’Italia è stata più decisa, anche rapida, ha subito voluto mettere in atto il modello Gjadër”.
Un modello che peraltro contraddice quello su cui la stessa Caritas sta lavorando almeno da una decina d’anni, dai primi flussi sulla cosiddetta rotta balcanica, quando si attivò la collaborazione con la polizia di frontiera per conoscere e affrontare questa mobilità umana. “Fino al 2015, il nostro Paese non era attraversato dai migranti perché era stato più che altro terra di emigrazione. Abbiamo realizzato un progetto nazionale aprendo uffici su tutti i confini interessati con équipe di interpreti, personale medico, psicologi, assistenti sociali, mediatori culturali. Abbiamo anche monitorato la situazione rilevando che ogni anno il numero degli ingressi in Albania cresceva con persone che giungevano soprattutto da Afghanistan, Siria, Paesi del nord Africa. Abbiamo ascoltato le storie di viaggi lunghi e dolorosi, tra le montagne del sud, in particolare quelle di minori non accompagnati, donne, anziani. Vivere nei campi in Turchia o in Grecia per loro era stato molto pesante. Abbiamo anche cercato i corpi di chi era morto durante il percorso, per seppellirli”. Un’assistenza e un lavoro di coordinamento a tutto tondo, quella portata avanti dalla Caritas albanese in sinergia con le altre Chiese e con i rappresentanti di altre religioni, che si è rivelata importante, spiega Ariela, anche per le istituzioni le quali hanno potuto far crescere la propria sensibilità. Dal lavoro di advocacy è nato anche un piano di emergenza con cui intervenire, insieme ad altre ong, per rispondere alle esigenze delle persone migranti formando comunità, congregazioni, diocesi, la stessa polizia di Stato.
Il modello previsto dal protocollo Italia-Albania, invece, si pone come una vera e propria enclave in territorio albanese e non si basa su un lavoro di concertazione a nessun livello. L’esecutivo locale non interferisce. “Risulta che il governo italiano abbia fatto dei contratti a dei locali, per poter usufruire di medici, di personale per le pulizie… Ma ancora non è chiaro niente. Certamente nascerà l’idea di coinvolgere una ong locale, ma non sappiamo”. Alla luce dell’esperienza maturata nell’ambito delle migrazioni, Mitri considera l’accordo tra i due Paesi come qualcosa che si inserisce nella predilezione che storicamente il governo albanese ha nei confronti di tutto ciò che è “esperimento”: “Il governo ama aprirsi a progetti pilota. Ne è un esempio il campo che accoglie iraniani che si oppongono al regime, abbiamo pure il campo che accoglie gli afghani”. C’era l’idea che andassero in America, non sono più partiti. “Al governo piace fare esperimenti – sottolinea ancora Mitri – e devo dire che anche la nostra cultura è aperta all’accoglienza. Abbiamo sofferto l’emigrazione perciò abbiamo questa sensibilità”. Però, per quanto riguarda il Centro di Gjadër, “persone portate avanti e indietro, bisogna ammettere che è qualcosa di molto brutto”.
[Foto: Euractiv Italia]