La lezione di don Milani
L’errore più grande che potremmo fare, nel centenario della nascita di don Lorenzo Milani, è quello di considerare la sua vita, la sua testimonianza, la sua profezia scomode soltanto per la Chiesa e la società italiane degli anni cinquanta e degli anni sessanta. Ne parla Rosy Bindi sul numero di agosto-settembre di Vita Pastorale.
Non c’è molto di consueto nel giovane prete che, fino a vent’anni, ha goduto i privilegi di una famiglia benestante e cosmopolita e dopo “l’indigestione di Gesù Cristo”, nell’estate del 1943, cambia vita e da ricco si fa povero per condividere con i più poveri la ricchezza del suo sapere e la sua fede. La radicalità delle sue scelte, le prese di posizione in favore del diritto di sciopero e contro il lavoro minorile, l’appoggio agli obiettori di coscienza, la convinzione che per comunicare il Vangelo è necessario risvegliare l’umano nei giovani operai sfruttati di Calenzano e nei figli analfabeti dei contadini del Mugello, appaiono provocazioni imperdonabili ai conservatori, sia negli ambienti ecclesiastici che in quelli politici del suo tempo. Da qui le incomprensioni, l’esilio a Barbiana, la solitudine, ma anche il riscatto e la profezia che ha superato i confini di una vita troppo breve e di una Chiesa e di una società troppo anguste e ha raggiunto, nel tempo e nello spazio, le coscienze libere di tanti cristiani e di tanti cittadini.
In questo centenario vorremmo restituire don Lorenzo a sé stesso, farlo parlare senza filtri, superare le caricature che gli hanno cucito addosso e, soprattutto, farci scomodare dall’attualità della sua testimonianza ecclesiale e civile. L’aveva già fatto papa Francesco a Barbiana nel 2017, riconoscendo in lui «un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa», e l’ha fatto il presidente Mattarella aprendo, sempre a Barbiana, il Centenario di «un grande italiano che ci ha invitato all’esercizio di una responsabilità attiva». Don Milani è stato, prima di tutto, un innamorato di Dio e dei poveri. Lo è stato da prete, sempre con l’abito talare, scomodissimo e obbedientissimo alla sua Chiesa dalla quale non si sentiva accolto e compreso, ma verso la quale ha sempre mendicato amore e spirito di comunione.
Non è scontato richiamare l’attualità del priore di Barbiana a partire dalla radicalità del suo amore verso Gesù e dall’ansia di giustizia per gli scarti della società, al centro della sua cura pastorale e del significato del suo stesso sacerdozio. Eppure, dovremmo interrogarci come battezzati e come comunità ecclesiale sulla nostra fedeltà al Vangelo. Chi sono oggi i giovani operai di Calenzano o i figli dei contadini del Mugello ai quali don Lorenzo voleva restituire la parola, quella sacra del Vangelo e quella laica dei giornali e dei contratti di lavoro, per riscattare la loro dignità?
Don Milani è stato un precursore del concilio Vaticano II. E il volto della Chiesa in uscita che ci consegna il magistero di Francesco potrebbe riconoscersi nella sua testimonianza di prete e di educatore. La scuola è il suo “ottavo sacramento”, perché amare i poveri significa colmare “l’abisso dell’ignoranza” prima causa di emarginazione. «Il mondo», diceva, «si divide in due categorie. Un uomo ha mille parole. Un uomo ha cento parole». Fare scuola agli ultimi, prima a Calenzano e poi a Barbiana, è la via per superare diseguaglianze e «risvegliare l’umano per aprirlo al divino». La sua era una pedagogia esigente ma accogliente. Nella Lettera a una professoressa ci ricorda che la scuola che respinge i ragazzi difficili è come un ospedale che cura i sani e respinge i malati.
Sono passati più di sessant’anni, eppure l’Italia è tra i Paesi europei con il più alto tasso di abbandono scolastico. Come negli anni ’50 e ’60 è una dispersione classista: colpisce i figli delle famiglie più povere, le zone più periferiche del Paese, è più alta negli istituti professionali che nei licei. Troppi giovani completano il ciclo scolastico senza il grado di cultura che dovrebbe essere loro assicurato. Per numero di laureati non competiamo con la Germania o con la Francia, ma con l’Ungheria e la Romania. Migliaia di figli di immigrati o minori non accompagnati che arrivano in Italia non hanno accesso a studi regolari. Quanti italiani e italiane possiedono la quantità e la qualità di parole necessarie per stare al mondo, nel mondo globalizzato di oggi?
Non renderemmo tuttavia ragione a quel giovane e irrequieto prete se non ricordassimo che lo scopo principale della sua scuola era quello di formare cittadini e cittadine sovrane. Don Milani insegna ai suoi ragazzi e alle sue ragazze ad avere cura gli uni degli altri. Il motto I care ancora appeso nella piccola aula di Barbiana non ammette cedimenti sentimentali. È un messaggio esigente: è il contenuto stesso della politica come costruzione del bene comune, impegno per la giustizia e la pace. È il contrario dell’individualismo, del “me ne frego” fascista, dell’avarizia. La funzione della scuola, dirà nella Lettera ai giudici, non è solo quella di insegnare a rispettare la legge, ma anche quella di cercare leggi più giuste e cambiare quelle che non difendono i deboli e gli oppressi ma i privilegi dei più forti.
Di fronte all’assenteismo elettorale crescente, all’antipolitica dilagante, alla delegittimazione della partecipazione politica, alla disaffezione verso i beni comuni, alla corsa alle soluzioni individualiste, ma soprattutto di fronte all’umiliazione dell’esercizio della rappresentanza da parte di classi dirigenti sempre meno formate ed eticamente attrezzate, l’insegnamento di don Lorenzo appare d’una attualità sconvolgente.
Ci inchioda don Milani anche sul tema della pace. Morì da imputato, sotto processo, per aver difeso gli obiettori di coscienza al servizio militare. Oggi, in Italia non esiste più la leva obbligatoria anche grazie a un ministro che oggi è presidente della Repubblica, ma il mondo è sempre in guerra e si ostina ad applicare l’antico principio: “Se vuoi la pace prepara la guerra”. La corsa agli armamenti non si ferma e nel cuore dell’Europa si combatte un conflitto con evidenti ricadute mondiali. Non sappiamo cosa direbbe oggi il priore di Barbiana, ma forse potremmo riprendere la Lettera ai cappellani militari nella quale affermava che rileggendo la storia d’Italia alla luce della art. 11 della Costituzione non aveva trovato neanche una guerra giusta. Forse faceva eccezione per la Resistenza al nazifascismo.