LA STORIA / Operatrice Migrantes, "il Mediterraneo la rotta migratoria più pericolosa al mondo"

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Pubblichiamo la testimonianza resa da una volontaria dell’accoglienza di migranti, Sara Vatteroni, direttrice regionale Toscana della Fondazione Migrantes della Cei, insieme a Solange (originaria della Costa d’Avorio), provenienti dalla Diocesi di Massa e Carrara Pontremoli, alla veglia penitenziale pre-Sinodo presieduta martedì sera da papa Francesco nella Basilica di San Pietro. "In media nel Mediterraneo sei persone perdono ogni giorno la vita. Noi siamo 'spettatori', perché non possiamo fare altro che attendere sulla riva chi è sopravvissuto".

Mi chiamo Sara, sono direttrice regionale Toscana della Fondazione Migrantes, e insieme a Solange veniamo dalla Diocesi di Massa e Carrara Pontremoli. Il Porto di Carrara, nell’alto Mar Tirreno a 700 miglia da Lampedusa, da oltre un anno e mezzo, è stato dichiarato “Porto sicuro” per l’approdo delle imbarcazioni delle Ong che soccorrono nel Mar Mediterraneo i migranti su imbarcazioni di fortuna: quella del Mediterraneo è ritenuta la rotta migratoria più pericolosa al mondo perché in media sei persone perdono ogni giorno la vita.

Nel nostro porto, sulle nostre coste arrivano quelli che sono sopravvissuti, coloro che ce l’hanno fatta: persone che hanno attraversato il deserto; hanno sofferto la fame e la sete; hanno subito violenze di ogni genere, di cui portano segni evidenti nel corpo e sulla pelle e segni difficilmente visibili nell’anima e nella psiche; ma spesso questi ultimi sono i più dolorosi per la propria dignità e i più difficili da curare. Sono “i sopravvissuti”, i migranti che per un gioco del destino erano sulla barca giusta che non è affondata, nel periodo giusto perché non troppo burrascoso e nel tratto di mare giusto perché solo dopo pochi giorni di navigazione sono stati avvistati e recuperati.

Tutto ciò sembra un brutale gioco del destino, di cui noi siamo “spettatori” perché non possiamo fare altro che attendere sulla riva chi è sopravvissuto: noi che gioiamo per chi riesce ad arrivare vivo da noi; ma con il senso di colpa per chi non ce l’ha fatta. Un senso di colpa ancor più radicato in chi è sopravvissuto perché è riuscito laddove molti compagni di viaggio, del viaggio per la vita, hanno fallito: sono morti spesso nel silenzio e nell’anonimato perché nessuno saprà mai dove e quando

Il momento della discesa dalla barca che li ha soccorsi è, ogni volta, un momento ricco di emozioni per noi tutti. Sono gli occhi a parlare, occhi neri che riflettono tutto quello che hanno visto e vissuto perché ci vedi il ricordo doloroso di chi non ce l’ha fatta e la paura di quei momenti interminabili dove a prevalere sulla solidarietà, che è assente sui “barconi della speranza”, è stato l’istinto di sopravvivenza che ha tolto l’umanità di un gesto, di una carezza.

L’esperienza del barcone non è quella di chi vive in comunione con altre persone un cammino di vita: non è la solidarietà di un unico popolo, è la casualità di trovarsi assieme, uno sull’altro, accomunati da un medesimo destino che vivono in solitudine per la propria sopravvivenza. Come era nei campi di sterminio dove gli uomini e le donne perdevano la loro identità di singoli, di comunità, di popolo e non erano più persone, ma numeri, corpi che cercavano di sopravvivere, spesso a discapito degli altri.

In porto sbarcano a piccoli gruppi. Prima i malati; poi le donne con i bambini; quindi i minori non accompagnati e infine gli uomini. Una discesa che testimonia la solitudine anche delle famiglie che non scendono mai assieme e che aiutiamo a ricostituire appena sbarcano, spesso con enormi problemi. A volte un fratello, un figlio, un nipote, che hanno già vissuto quella esperienza, arrivano a Carrara, nella zona fuori dal porto, soprattutto dal Nord Europa, hanno seguito sulle mappe nautiche digitali il viaggio dei loro cari, non sapendo se l’imbarcazione che li sta portando in salvo li abbia a bordo.

Li cercano attraverso le transenne vivendo il terrore della speranza che, non appena riescono a riconoscerli e incontrarli, si trasforma in un fiume di lacrime, di abbracci. Dal momento dello sbarco a quello della ripartenza verso le diverse destinazioni trascorrono circa dieci e più ore per l’iter sanitario, l’identificazione, il fotosegnalamento. Ore molto preziose per noi volontari: gli occhi ti scrutano, mentre tu cerchi di tranquillizzarli, riuscirai a ricongiungerli con parenti ed amici che erano con loro sulla barca anche nella destinazione finale; vogliono capire cosa avverrà dopo, vogliono parlare e ti raccontano la loro storia tutta d’un fiato.

Sono le donne le più silenziose e invisibili, che iniziano a raccontare la loro storia; la scelta di lasciare casa, che non era sicura, dove sei stata segregata da un padre, un marito violento, padre dei tuoi figli… e viene un giorno che un conoscente, preso dalla compassione ti aiuta a fuggire, per intraprendere un viaggio con l’unico scopo di allontanarti dalla violenza di una vita di soprusi. Alla fine l’unica possibilità che hai è di scappare: lasci i figli perché temi che non riescano a superare un viaggio così difficile in cui non riuscirai a proteggerli, e con loro lasci una parte di te.

Tu sempre più sola, anche se fisicamente con altri, percorri paesi, deserti e incontri la violenza che porta via le uniche cose che ti sono rimaste: il tuo corpo e la tua dignità. Arrivata in Libia o in Tunisia ti rimane l’ultimo tratto per l’Europa e, spesso vorresti ritornare indietro: ma non puoi più. E hai paura. Paura del mare, di quella distesa di acqua che da miraggio di speranza di vita diventa muro d’onde d’acqua insormontabile.

Non hai altra scelta: se vuoi avere anche solo una possibilità di sopravvivere e di continuare a dare speranza ai tuoi figli, ti imbarchi. Spinta sui barconi, incerti piccoli gusci di noce in un gigantesco mare d’acqua, affronti l’oscurità; e sei sola in mezzo a tanti... troppi che gridano, piangono quando le onde crescono, finisce la scorta di acqua e il cibo, il motore a tratti si ferma, il barchino imbarca acqua, acqua salata che si mescola al carburante rimasto e all’olio bollente che brucia le gambe soprattutto a te che perché donna ti hanno messo più vicino al vano motore... e pensi di non farcela e annaspi e urli e cerchi con le mani un aiuto che chi è con te non ti può dare perché è come te… un migrante fantasma in mezzo al mare... fino a quando qualcuno ti soccorre e alla fine approdi. Una mano ti afferra: sei sopravvissuta!

I tuoi occhi, le tue mani raccontano il senso di vuoto; ma anche la paura che il tuo corpo oltre ai segni porti il frutto, nel tuo ventre, di tutta la violenza che hai subito. Quando ho chiesto a Solange, sbarcata a Carrara cinque mesi fa, di accompagnarmi per testimoniare insieme a me quello che sta avvenendo, con occhi pieni di gioia e gratitudine per la proposta mi ha detto “vengo per portare con me tutta la mia Africa”.

Noi oggi siamo qua per testimoniare un’umanità nuova; da persone che accompagnano persone ad essere persone; da donne che aiutano donne ad essere donne: persone e donne che hanno accolto il forestiero e la forestiera che si è presentata al loro porto e che era in te. Grazie per averci ascoltato e grazie alla mia famiglia, mio marito e i nostri tre figli, che condividono il mio impegno.

[Foto: Fondazione Migrantes]