Le condizioni socio-economiche dei rifugiati in Italia. Uno studio Unhcr

Di Mariacristina Molfetta, da Migranti Press
Il titolo della ricerca voluta e finanziata dall’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr) – “L’integrazione tra sfide e opportunità. Uno studio sulle condizioni socio-economiche dei rifugiati in Italia” –, non gli rende abbastanza giustizia.
Perché non si tratta di uno studio tra i tanti, ma del primo in assoluto così esteso realizzato in Italia, e uno dei primi in Europa, sulle condizioni socio-economiche successive all’accoglienza delle persone che hanno avuto sia una protezione internazionale (da qui in avanti Bip, ossia “beneficiari di protezione internazionale”) che una protezione temporanea (da qui in avanti Btp, cioè “beneficiari di una protezione temporanea”). Lo studio è stato portato avanti con la società di consulenza Lattanzio Kibs e con l’associazione di ricercatori specializzati sulla mobilità umana, Fieri, che hanno contribuito con diversi ricercatori; e si è avvalso di un comitato scientifico composto da rappresentanti del ministero dell’Interno, del ministero del Lavoro, del ministero dell’Economia, della Banca mondiale, dell’Associazione nazionale dei comunica italiani (Anci), di Confindustria, del Tavolo asilo e immigrazione, dell’ Unione nazionale italiana per i rifugiati ed esuli (Unire), nonché da rappresentanti di Unhcr Italia ed Europa.
Il percorso di ricerca e l’individuazione degli intervistati
La ricerca è durata più di anno. I primi mesi hanno impegnato i ricercatori in un lavoro preliminare su più di 200 articoli correlati al tema. Successivamente si sono messi in campo strumenti di indagine sia qualitativi che quantitativi.
Le principali nazionalità delle persone da intervistare sono state individuate in base al Paese di provenienza, al genere, all’area di residenza e al tempo di permanenza, scegliendo sia persone da poco riconosciute, che persone presenti in Italia da 5 anni e altre da 10. I criteri di selezione adottati hanno portato a scegliere persone che provenivano da Nigeria, Eritrea, Mali, Somalia, Sudan, Iraq, Siria, Pakistan, Afghanistan, Venezuela, El Salvador e Ucraina. Tra questi l’84% è un Bip e il 16% Btp; le donne erano il 37% dei Bip e l’80% dei Btp; il 34% di loro era residente nel Nord-Ovest del Paese, il 16% nel Nord-Est, il 31% nelle regioni del Centro e il 19% nel Sud e nelle Isole.
Ricordiamo che secondo l’Istat le persone con un permesso Bip in Italia sarebbero circa 100.000, mentre i Btp sarebbero circa 150.000, per una popolazione totale di 250.000 persone. Grazie anche alla collaborazione con la rete Europasilo si sono individuate le 1.231 persone intervistate in 16 diverse città, grandi e piccole, in tutta Italia.
Le interviste sono state effettuate tutte in presenza e la traccia è stata un questionario semistrutturato di circa 60 domande. Ci sono stati anche colloqui più approfonditi con circa 20 tra “attori principali” e rifugiati e 10 focus group che hanno coinvolto 80 persone, oltre a una giornata finale che ha riunito i ricercatori con altri accademici e con il comitato scientifico di ricerca. Insomma, si tratta di una ricerca caratterizzata da un altissimo rigore scientifico.
Lo studio aveva come obiettivo quello di fornire una comprensione quanto più possibile completa sia delle sfide affrontate dalle persone dopo il riconoscimento della protezione internazionale e della protezione temporanea in Italia, che provare a entrare nel merito di quali sono i fattori sistemici e strutturali che influenzano in positivo o in negativo la loro integrazione.
I risultati
Ora proviamo a vedere alcuni dei risultati dello studio. Innanzi tutto, spicca un elemento: i titolari di protezione temporanea o internazionale in Italia sono mediamente più giovani, ma anche più istruiti della popolazione straniera in generale.
La scarsa conoscenza della lingua italiana rappresenta un ostacolo all’integrazione socio-economica: circa il 53% dei rifugiati accolti ne ha una conoscenza medio-bassa. Più aumenta il livello di conoscenza della lingua, più aumenta la possibilità di occupazione e anche il riconoscimento salaria-le. Su questo aspetto, in particolare, è necessario dire che le norme che hanno tolto la possibilità di frequentare dei corsi di italiano all’interno dei centri – sia nei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) che in quelli del Sistema accoglienza e integrazione (Sai) – quando si è ancora nella condizione di richiedenti asilo, in particolare il cosiddetto “decreto Cutro” (dl 20/2023), evidentemente non hanno favorito il successivo processo di integrazione.
I dati più preoccupanti riguardano però la povertà. Nella ricerca si sono usati tre indicatori diversi: povertà assoluta, povertà relativa, esclusione sociale e deprivazione materiale. Si trova in condizioni di povertà assoluta il 43,5% delle persone intervistate. Questo indicatore viene calcolato in base al reddito e in questa fascia ci sono più che altro donne e chi risiede in Italia da meno tempo.
È in condizione di povertà relativa – che si calcola tenendo conto del reddito mediano nazionale – il 67% delle persone intervistate. Bisogna considerare, per fare un raffronto, che si trova in condizione di povertà relativa il 17% degli italiani e il 39% degli stranieri residenti. In questa fascia ci sono soprattutto le persone meno istruite e chi è in Italia da meno tempo. Si trova, infine, in una situazione di esclusione sociale e deprivazione materiale il 26% degli intervistati. Questa particolare condizione si calcola osservando quanti intervistati non possono godere di almeno 7 dei 13 servizi indicati come essenziali. Gli italiani nella medesima situazione sono l’8% e i migranti in generale il 31%.
Il reddito medio mensile dei nostri Bip e Btp è di poco più di 1.100 euro al mese, a confronto dei 1.680 degli italiani e dei 1.330 dei migranti in generale. Si tenga conto che il 40% degli intervistati percepisce meno di 1.000 euro. L’84% dei rifugiati intervistati lavora da quando è in Italia, ma generalmente svolgendo mansioni a bassa qualifica; anche se il tasso di istruzione, la conoscenza della lingua e il tempo di permanenza nel Paese possono lentamente risultare dei fattori per migliorare la loro posizione.
Rispetto alle difficoltà economiche in cui molti di loro si sono ritrovati, la rete cui possono fare riferimento è molto ridotta: il 49% del campione può contare su una o due persone, mentre contrariamente alla vulgata pochissimi hanno usufruito di un qualche sussidio locale o statale: il 73% non ha mai chiesto o ricevuto nulla. Il 62% degli intervistati vive con qualcuno, ma la casa è comunque stata o è ancora un problema. Il 16% di essi vive attualmente in una situazione molto precaria e un altro 26% ha avuto problemi rispetto a dove vivere nell’ultimo anno. L’alloggio risulta essere un problema soprattutto per gli uomini, per chi ha meno di 45 anni e per chi viene da un Paese africano.
Il 45% delle persone raggiunte dalla ricerca – poco meno di uno su due – dichiara di aver subito qualche forma di discriminazione o perché straniero o per il colore della pelle, ma la cosa ancora più triste è che l’83% delle vittime dichiara di non aver denunciato l’accaduto “per non avere problemi, perché succede spessissimo, perché non servirebbe, perché non può provarlo…”.
La lenta e difficile situazione di inserimento socio-lavorativo delle persone rifugiate in Italia, anche quando sono nel nostro Paese da diversi anni, testimonia la durezza del loro percorso anche una volta che sono in salvo. Dall’altro lato, appare un’occasione persa proprio per il Paese che li ha accolti e riconosciuti come meritevoli di protezione, perché vuol dire che non siamo in grado di permettere loro di usare e valorizzare i talenti che hanno – ricordiamoci che il 19% per cento di loro ha un titolo universitario – e che potrebbero essere una risorsa preziosa per tutti.
[Fonte: Migrantes Online; Foto Valeria Ferraro]