L’INTERVENTO / P. Occhetta, l’importanza di un Ministero della Pace

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Di Francesco Occhetta, SJ *, da Vita Pastorale

In un mondo scosso dai venti di guerra, risuona il monito di Paul Valéry: la guerra è il luogo dove «i giovani che non si conoscono e non si odiano, si uccidono, in base alle decisioni prese da adulti che si conoscono e si odiano, ma non si uccidono». Contro questa logica devastante, è riemersa l’intuizione di don Benzi di istituire un Ministero della pace che di recente è stato promosso dall’Associazione Giovanni XXIII e appoggiato dalla Fondazione Fratelli tutti, Acli e l’Azione cattolica. Nulla di così nuovo. La storia della Chiesa è un grido incessante per la pace. Già Benedetto XV definiva la Prima guerra mondiale una «inutile strage». E Pio XII, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, ammoniva: «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra». Le prime parole del pontificato di Leone XIV sono state: «La pace sia con tutti voi». Moniti che si scontrano con la logica del Si vis pacem para bellum, che riduce la pace a mera assenza di guerra, anzi a un concetto negativo di pace fondato sugli armamenti.

La Dottrina sociale della Chiesa ribalta questa prospettiva con la massima Si vis pacem para pacem: la vera pace si costruisce attivamente, è un processo, ha bisogno dell’impegno attivo di tutti. Richiede scelte basate su giustizia e solidarietà, dialogo e disarmo. Proporre un Ministero della pace non è un’utopia o una scelta pacifista, ma una risposta concreta di pacificazione incarnata nella storia, un’urgenza per rafforzare la missione sancita dall’articolo 11 della Costituzione italiana che «ripudia la guerra».

Un Ministero della pace riaffermerebbe con forza la diplomazia e la cultura alla pace attraverso scuole ed esperienze di difesa civile non armata. Le sue aree di azione includerebbero: mediazione e diplomazia preventiva per anticipare e disinnescare le tensioni; risoluzione dei conflitti attraverso il dialogo e il rafforzamento del diritto internazionale umanitario; ricostruzione post-bellica e promozione dei diritti umani, per curare le ferite e costruire società attraverso la purificazione della memoria sociale; infine, politiche del disarmo con la deterrenza come mezzo, non come fine.

Modelli simili esistono già in paesi come Costa Rica ed Etiopia, e negli sforzi di mediazione di Norvegia e Finlandia. Altrimenti, quando la cultura della pace si eclissa, la guerra diventa l’unica drammatica conseguenza. La Pacem in terris (1963) lo ricorda: «Giustizia, saggezza e umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti, si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti; si mettano al bando le armi nucleari; e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci» (n. 60).

Per questo la Chiesa propone un “disarmo integrale”: non basta ridurre le armi, dobbiamo disarmare spiriti, parole e scelte quotidiane. È fondamentale arginare la “psicosi bellica” che porta a considerare la guerra come soluzione inevitabile. Per questo, papa Leone ha proposto che il Vaticano diventi uno spazio relazionale e spirituale in cui i nemici possano incontrarsi. Nel Vocabolario della fraternità il premio Nobel Oscar Arias Sanchez scrive: «Le guerre ci portano a investire in armi e negli eserciti invece di costruire scuole, ospedali e abitazioni, di cui ha bisogno gran parte della popolazione mondiale. Il mondo non ha bisogno di soldati ma di più medici e insegnanti».

In questo Giubileo si tornerà a riflettere sull’importanza del Ministero della pace. Anche l’intesa Anci-Fondazione Fratelli tutti è rivolta ai Comuni d’Italia perché s’impegnino a costruire la pace sull’eredità di La Pira. Affermava Gandhi: «Non c’è via per la pace, la pace è la via». È tempo d’imboccarla con decisione.

* Padre Francesco Occhetta, gesuita, è teologo e politologo, docente di Dottrina sociale della Chiesa alla Pontificia Università Gregoriana, segretario generale della Fondazione vaticana Fratelli tutti

[Fonte: Vita Pastorale; Foto: Fondazione Fratelli Tutti]