Mons.Bressan sul caso Pioltello, "ci piace il pluralismo delle presenze religiose"

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Grande clamore e numerose polemiche ha suscitato la decisione dell’Istituto comprensivo “Iqbal Masih” di Pioltello (MI) di sospendere le lezioni il 10 aprile, in occasione della festa per la chiusura del Ramadan, per non obbligare molti alunni – che per oltre il 40% sono di religione islamica – a scegliere tra la partecipazione ai riti religiosi e la presenza alle lezioni. La Diocesi di Milano è intervenuta a più riprese a sostegno di questa decisione. A mons. Luca Bressan, vicario episcopale per la Cultura, la carità, la missione e l’azione sociale della Diocesi di Milano, abbiamo chiesto di spiegarci perché.Anticipiamo una parte dell’intervista, il cui testo integrale sarà pubblicato nel numero di maggio di Aggiornamenti Sociali.

Sulla vicenda dell’Istituto comprensivo “Iqbal Masih” di Pioltello la Chiesa ambrosiana ha ripetutamente preso posizione in modo molto chiaro. Possiamo riepilogare i diversi interventi?

La Diocesi è intervenuta a partire da sollecitazioni esterne, ma in modo consapevole, portando avanti una linea chiara. Visto il polverone politico e mediatico scatenatosi intorno alla vicenda, una prima richiesta è arrivata dal settimanale Famiglia Cristiana, rivolta al diacono Roberto Pagani, responsabile del Servizio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Diocesi . Pagani ha espresso la posizione della Chiesa ambrosiana: non ci sentiamo feriti da una decisione come quella dell’Istituto comprensivo “Iqbal Masih” di Pioltello, perché riteniamo la libertà religiosa un valore. Viviamo in un contesto di pluralismo delle presenze religiose, che ci piace, e non c’è ragione di negare visibilità a una fede che sul territorio è molto diffusa.

Nei giorni successivi anche l’arcivescovo di Milano, mons. Mario Delpini, ha più volte ribadito questa posizione, rispondendo a domande postegli a bruciapelo in circostanze non legate alla vicenda. Intanto, autonomamente, i parroci di Pioltello avevano deciso di intervenire con una lettera che è stata letta al termine di tutte le messe celebrate domenica 24 marzo nelle tre parrocchie della città3. L’intenzione era aiutare i fedeli a orientarsi, ma soprattutto sostenere i ragazzi della scuola coinvolta, per aiutarli a rimanere uniti ed evitare “l’importazione” nel loro mondo di divisioni e polarizzazioni tipiche di quello degli adulti.

Ma perché intervenire con tanta decisione su una vicenda che, in fondo, non coinvolge direttamente i cattolici? Che cosa c’entrano il Vescovo e la Diocesi con la decisione di una scuola pubblica relativa a una ricorrenza religiosa musulmana?

Effettivamente come vicario episcopale faccio molta attenzione a rispettare i confini. Già in seminario abbiamo appreso che esiste una sana laicità della vita sociale ed è bene evitare che la Chiesa cattolica si ritenga interpellata su tutto. In questo caso ci siamo sentiti coinvolti perché il dibattito aveva spostato la questione sul terreno dell’identità cristiana o cattolica del nostro Paese, e del rapporto tra le religioni. In particolare, alcuni hanno ravvisato nella vicenda i segni di una volontà di cambiare l’identità cristiana del nostro territorio. La nostra intenzione, serena ma ferma, è ribadire che la fede cristiana non cambia affatto nel suo nucleo fondamentale. Possono mutare invece le forme in cui la si vive, come conseguenza del necessario confronto con l’evoluzione del contesto sociale al cui interno siamo chiamati a viverla. Una società che cambia ci chiede di cambiare il modo di stare al suo interno.

In questo contesto, essere cattolici, nel senso tecnico ed etimologico del termine, significa far vedere che siamo aperti al tutto e capaci di dialogare anche con chi non si riconosce nella fede che professiamo. Per questo non vogliamo che il confronto e il dialogo tra le religioni diventi uno scontro. Questa intenzione è condivisa. Durante lo scorso mese del Ramadan ho partecipato più volte a un Iftar [il momento in cui, dopo il tramonto, i fedeli islamici interrompono il digiuno che durava dall’alba con un rito che diventa spesso occasione di incontro e convivialità, N.d.R.] in moschee diverse. Non ho incontrato nessuna volontà di scontro diretto o di sopraffazione del cattolicesimo, ma piuttosto la ricerca di un’alleanza per confrontarsi insieme con una società che vuole espellere Dio. Noi siamo per la libertà religiosa, non per una laicità che espelle la religione dalla vita civile e sociale. Al contrario, siamo per una vita civile e sociale capace di contenere al proprio interno la pluralità delle religioni.

In questi incontri con comunità islamiche avete parlato anche del caso della scuola di Pioltello? Come hanno reagito alle prese di posizione della Chiesa ambrosiana?

Ne sono rimasti tutti colpiti, anche perché si trovavano sommersi dal polverone mediatico suscitato intorno a quella vicenda. Paradossalmente, alla fine è stato anche un bene, perché ci ha permesso di approfondire e di spiegare il senso di uno stare insieme restando diversi e rispettando le singolarità di ciascuno. Da questo punto di vista, il gesto di condividere il cibo ha una valenza simbolica molto profonda per le tre religioni abramitiche: significa creare legami di comunione. Per essere vera e profonda, questa comunione non può nascondere le differenze, ma ha bisogno di spazi di dialogo, in cui ciascuno può rivendicare la propria identità. In tutti questi incontri è emersa la preoccupazione condivisa di aiutare le giovani generazioni a percepire la differenza in modo positivo. In queste occasioni, così come in quelle in cui i riti di rottura del digiuno sono stati ospitati presso strutture della Chiesa cattolica, quando le comunità musulmane non dispongono di spazi adeguati, abbiamo constatato – ed è motivo di speranza – che i bambini hanno una naturalezza nello stare insieme e confrontarsi che ci lascia sperare che affronteranno queste sfide in modo diverso da noi adulti.

Al di fuori dei rapporti con le comunità islamiche, quali altre reazioni hanno suscitato le prese di posizione della Diocesi?

Le reazioni hanno confermato una sensazione di scarsa preparazione a vivere nel quotidiano, a livello locale, il confronto con un mondo come quello islamico, che ormai è tra noi ed è arrivato non per una spinta di proselitismo o di conquista religiosa, ma per motivi sostanzialmente economici: la gente, venuta qui alla ricerca di lavoro e di una vita più dignitosa, si è portata dietro la propria cultura e anche la propria fede. Ci ha stupito vedere la fatica e il disorientamento che questo provoca, innanzi tutto tra noi cattolici. Serve una maturazione che ci permetta di renderci conto che continuiamo a essere chiamati ad affermare la verità della nostra fede e l’universalità della salvezza che annunciamo in un contesto che però è diventato plurale. Universalità non coincide più con univocità, come poteva essere fino agli anni ’70 del secolo scorso.

E tra i cattolici? L’atteggiamento ufficiale assunto dalla Diocesi è stato condiviso?

Mi sembra di aver notato tre atteggiamenti diversi. Il primo, tutto sommato minoritario, è la condivisione piena e ragionata della posizione della Diocesi, accogliendone anche la profondità della prospettiva di fede da cui nasce e la ricchezza del lavoro compiuto dalla teologia delle religioni. Un secondo atteggiamento, ancor più minoritario del precedente, è il dissenso aperto, motivato dalla paura di uno smarrimento dell’identità cristiana che conduce a leggere il confronto nella chiave dello scontro. In realtà questa posizione non si accorge che la perdita dell’identità cristiana non è legata alla presenza di altre religioni. A qualcuno che mi diceva che quelli che vengono a vivere qui dovrebbero assumere i nostri valori mi è capitato di chiedere: «Ma lei a Pasqua è stato a Messa?». Mi ha stupito sentirmi rispondere, con fastidio: «Che cosa c’entra?». Ecco, la perdita dell’identità cristiana e dei suoi valori dipende dal fatto che non li custodiamo e non li coltiviamo, non dal fatto che gli immigrati musulmani non partecipano alla Messa o che ci impegniamo nel dialogo con loro. Il terzo atteggiamento, certamente il più diffuso, è quello di un silenzio pieno di apprensione verso la prospettiva del dialogo e del confronto. Per questo abbiamo bisogno di strumenti con cui rendere ragione di quanto facciamo come credenti. Non si può più vivere una fede di comodo, accontentandosi di rimanere nel solco di quello che ci è stato tramandato, senza una rielaborazione che sia all’altezza dei tempi che stiamo vivendo e quindi della sfida del pluralismo con cui siamo chiamati a confrontarci.

Note

Mons. Luca Bressan, nato a Varese nel 1963, è presbitero della Diocesi di Milano dal 1987. Ha completato i suoi studi a Parigi (master in Antropologia religiosa alla Sorbona, dottorato in Teologia all’Institut Catholique). Insegna presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale ed è membro della Redazione de La Rivista del Clero Italiano e di Lumen Vitae. Ha collaborato per diversi anni con la Conferenza Episcopale Italiana e con il Sinodo dei Vescovi (XIII Assemblea generale ordinaria sulla Nuova Evangelizzazione, 2012). Dal 2012 è Vicario episcopale per la Cultura, la carità, la missione e l’azione sociale della Diocesi di Milano. È presidente della Fondazione Caritas Ambrosiana e di due realtà di arte e bellezza: il Museo diocesano Carlo Maria Martini e la Scuola Beato Angelico.

(Questo articolo è stato pubblicato sul sito di Aggiornamenti sociali, al quale rimandiamo; Photo Credits: Aggiornamenti sociali)