“Si vis pacem para bellum”: una ricetta per il disastro

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Per Aggiornamenti Sociali, rivista dei Gesuiti del Centro San Fedele di Milano, il recente attacco di Israele e Stati Uniti contro l’Iran ha segnato uno dei punti più bassi della storia diplomatica moderna dalla fine della Seconda guerra mondiale, compromettendo anche il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP).

Di Giovanni Barbieri, da Aggiornamenti Sociali

Gli eventi delle ultime due settimane – dall’attacco della notte del 12 giugno all’Iran da parte di Israele al bombardamento da parte dell’aeronautica militare statunitense sui siti nucleari di Fordow, Isfahan e Natanz del 21 giugno scorso – hanno segnato uno dei punti più bassi della storia diplomatica moderna dalla fine della Seconda guerra mondiale e hanno fortemente compromesso le prospettive di recuperare una qualche forma di quel multilateralismo frutto delle grandi costruzioni diplomatiche e istituzionali del secolo scorso. La gravità di quanto accaduto è che l’attacco israeliano del 12 giugno e i bombardamenti statunitensi della notte del 21 giugno potrebbero non avere giovato al mantenimento in buona salute del Trattato di non proliferazione nucleare (TNP).

Il Trattato di non proliferazione nucleare

Il TNP, sottoscritto da Stati Uniti, Regno Unito e Unione Sovietica il 1º luglio 1968 ed entrato in vigore il 5 marzo del 1970, si basa su tre principi fondamentali che, nel tempo, sono diventati capisaldi del diritto internazionale e del multilateralismo: a) uso pacifico del nucleare; b) non proliferazione; c) impegno per il disarmo nucleare. 

Il Trattato riconosce come Stati nucleari quelli che al momento della sua stipula possedevano armi nucleari, ovvero i tre firmatari originari più Francia e Cina (che avrebbero aderito al TNP nel 1992), e imponeva loro di non trasferire tecnologia nucleare a Paesi terzi per scopi bellici.

Prevedeva inoltre la possibilità di sviluppare programmi nucleari a scopi pacifici, in sostanza la produzione di energia, sottoponendo comunque tale attività alla sorveglianza dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Si tratta di un’agenzia intergovernativa autonoma e specializzata, attualmente guidata dal diplomatico argentino Rafael Mariano Grossi, che si regge sul lavoro e sulla cooperazione di migliaia di scienziati di chiara fama, tra fisici nucleari e ingegneri nucleari, che hanno sempre svolto e continuano a svolgere il loro compito con piena obiettività ed etica scientifica. Gli Stati firmatari del TNP sono 191, tra cui l’Iran, che però ha minacciato di ritirarsi dal Trattato dopo i recenti eventi.

La posizione dell’Iran

Da quando nel 2002 l’Iran ha (ri)avviato1 il proprio programma nucleare e fino a quando nel 2018 gli Stati Uniti non si sono ritirati dall’accordo Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) del 2015, ha rispettato gli obblighi derivanti dal TNP e mantenuto un atteggiamento di regolare cooperazione con l’AIEA. Anche nei periodi più controversi del programma nucleare iraniano, nel corso del primo decennio degli anni 2000, l’allora direttore dell’AIEA, l’egiziano Muhammad Mustafā al-Barādeʿī, sosteneva che l’Agenzia, in ripetuti round di ispezione agli impianti di arricchimento, non avesse riscontrato criticità tali da lasciare spazio al ragionevole dubbio che il programma iraniano di arricchimento dell’uranio fosse prodromico alla costruzione di una capacità nucleare a scopo bellico. 

Tuttavia, varie circostanze portarono a ritenere che l’Iran stesse portando avanti piani segreti per l’arricchimento dell’uranio a scopi bellici, spingendo così all’imposizione nel 2007 di sanzioni economiche da parte del gruppo P5+1 (i membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU più la Germania) con la risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU n. 1747. Questa stessa risoluzione, peraltro, cessò di produrre i suoi effetti nel 2015 quando venne firmato il JCPOA, un vero capolavoro di diplomazia raggiunto con la cooperazione tra i P5+1, l’Unione Europea e l’Iran. In base all’accordo, l’Iran si impegnava a dismettere tutte le scorte di materiale arricchito che fino a quel momento erano state fonte di controversia in primis con gli Stati Uniti e Israele e a non oltrepassare la soglia del 3,7% di arricchimento dell’uranio. Il rispetto effettivo di tale impegno venne certificato dalla stessa AIEA. Ricordiamo che il JCPOA venne smantellato da Donald Trump nel 2018, durante la sua prima presidenza, e che questo atto venne salutato con estremo favore dall’allora primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Il ripristino dell’accordo non è stato voluto neanche da Biden e dal 2018 a oggi l’Iran è passato dal 3% al 60% di arricchimento dell’uranio.

Quindi, almeno fino al 2018, l’Iran ha sempre accettato di collaborare in maniera aperta e, per quanto si sa, trasparente.

Lo stesso ʿAlī Ḥoseynī Khāmeneī, guida suprema del Paese, nel 2003 lanciò una fatwa (un giudizio di condanna secondo il diritto islamico) contro la costruzione di armi nucleari, ripresa sia nel 2005 durante un incontro ufficiale dell’AIEA a Vienna, sia in varie altre circostanze, inclusa la firma dell’accordo JCPOA. Allo stesso tempo Khāmeneī e le più alte cariche della Repubblica islamica dell’Iran hanno sempre ribadito come la rinuncia formale all’acquisizione della capacità nucleare a scopo bellico fosse condizionata alla natura delle relazioni diplomatiche con Stati Uniti e Israele, rendendo chiaro che questa autolimitazione sarebbe cessata nel momento in cui le intenzioni di questi due attori fossero diventate apertamente ostili.

La questione del nucleare iraniano va quindi in letta in termini di approccio scoordinato da parte occidentale o, se si vuole, “malintenzionato”2. In tema di legalità internazionale, tanto invocata in questi ultimi giorni, vale la pena anche rilevare che Israele, pur avendo un arsenale nucleare le cui stime vanno da un minimo di 90 a un massimo di 400 testate nucleari, non ha mai aderito al TNP e non ha mai accettato di sottoporsi al regime di tutela internazionale dell’AIEA. Inoltre, gli attacchi contro l’Iran non hanno ricevuto la legittimazione del Consiglio di Sicurezza.

Un colpo al cuore al multilateralismo

Gli attacchi che si sono susseguiti a partire dal 12 giugno non hanno nulla a che fare con la diplomazia, il diritto internazionale (a proposito del diritto alla difesa) o il multilateralismo ma sono, piuttosto, azioni che lo mettono radicalmente e, forse, definitivamente in discussione. Gli interventi di Israele e Stati Uniti  contro l’Iran, che hanno scavalcato apertamente e platealmente le istituzioni internazionali preposte alla risoluzione dei conflitti e al mantenimento della pace trasformando in obiettivo militare il programma nucleare civile iraniano, certificano che è possibile aggredire militarmente un Paese che si sottopone volontariamente ai regimi legali internazionali rilevanti e alla tutela dell’AIEA, sebbene in un quadro di deterioramento della fiducia reciproca.

Paradossalmente, l’Iran acquisisce così una piena legittimità legale a recedere dal TNP in virtù del suo articolo X3 e a sviluppare (in maniera esplicita) la sua capacità nucleare a scopo bellico.

In un contesto simile, il TNP rischia di uscire ridimensionato rispetto alla sua portata originaria. Per questo sarà fondamentale attendere l’esito della Conferenza di revisione del TNP in programma per il 2026. A meno di cambiamenti improvvisi (sempre possibili, come ci mostra la cronaca di questi giorni), con queste azioni anche l’intero corpus del diritto internazionale e del multilateralismo del XX secolo rischia di avviarsi sulla via del tramonto, aprendo definitivamente le porte alla dottrina della “Pace che si costruisce con la forza”. La riflessione che dovrebbe risuonare nelle cancellerie occidentali è che questa dottrina, a questo punto, potrà essere legittimamente impiegata anche dagli “altri”.

Note

1. Il programma nucleare iraniano, avviato ai tempi dello scià Mohammad Reza Pahlavi, si era interrotto in seguito alla rivoluzione khomeinista. Nel 2002 è ripreso formalmente con l’annuncio della costruzione dell’impianto di Natanz.

2. Come osservato da Paolo Cotta-Ramusino in una intervista del 15 giugno 2025 rilasciata a Repubblica (Senza un accordo arriveranno alla bomba). Cotta-Ramusino è membro del gruppo di lavoro per la sicurezza internazionale e il controllo degli armamenti presso l’Accademia Nazionale dei Lincei, oltre che già Segretario generale delle Pugwash Conferences on Science and World Affairs, movimento di scienziati pacifisti fondalo nel 1957 da Joseph Rotblat e Bertrand Russell e premiato con il Nobel per la Pace nel 1995.

3. Secondo il quale «Ciascuna Parte, nell’esercizio della propria sovranità nazionale, avrà il diritto di recedere dal Trattato qualora ritenga che circostanze straordinarie, connesse ai fini di questo Trattato, abbiano compromesso gli interessi supremi del suo paese. Essa dovrà informare del proprio recesso tutte le altre Parti ed il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con tre mesi di anticipo. Tale comunicazione dovrà specificare le circostanze straordinarie che la Parte interessata considera pregiudizievoli ai suoi interessi supremi» (<www.isprambiente.gov.it>).

[Fonte e Foto: Aggiornamenti Sociali]