Verso l’assise delle chiese metodiste e valdesi: Trotta, “Chiesa piccola, Sinodo grande”

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L’intervista di Riforma.it alla moderatora della Tavola valdese.

Quello che si sta avvicinando, e che prenderà il via sabato 23 agosto, è un Sinodo “sperimentale”: non capita spesso; alla diacona Alessandra Trotta, moderatora della Tavola valdese, Riforma.it ha chiesto: si può dire che si tratti non di una rivoluzione, ma di una modalità che porta con sé qualche significativo elemento pratico di razionalizzazione dei lavori?

«Il pensiero che ha ispirato questa sperimentazione è di rendere più accessibile l’esperienza di partecipazione al Sinodo a persone (a cominciare dalle più giovani) che nel mondo di oggi sempre più difficilmente possono permettersi un’intera settimana libera da impegni lavorativi. Quindi, prima che una razionalizzazione, la volontà di salvaguardare l’effettiva ampia rappresentatività e inclusività della massima assemblea decisionale delle nostre chiese. La sfida sarà riuscire a conciliare questa esigenza con il mantenimento di adeguati spazi di discussione sui temi centrali della vita della Chiesa, accettando l’idea di concentrarsi su priorità ben individuate; senza perdere, allo stesso tempo, l’importanza di vivere il Sinodo anche come spazio di incontro di popolo, di identificazione e di festa, tanto prezioso per chiese che vivono una realtà di diaspora. Ci siamo sempre detti che una Chiesa piccola e dispersa ha bisogno di un Sinodo grande».

– Quest’anno non ci saranno consacrazioni al ministero pastorale, calano le forze in campo: ma le Conferenze distrettuali hanno dimostrato di prendere molto sul serio la questione del funzionamento e del lavoro nella Chiesa: possiamo avere, nonostante tutto, uno sguardo ottimistico?

«Il “per sempre” del ministero pastorale, il suo carattere itinerante forse spaventano più che in passato; e siamo sempre più consapevoli della necessità (avvertita da molte altre chiese cristiane) di abbandonare del tutto modelli parrocchiali di organizzazione della vita della chiesa, sviluppando una maggiore collaborazione fra ministeri diversificati, capaci di lavorare insieme. Siamo indubbiamente in un tempo di transizione, che viviamo con preoccupazione per la nostra incapacità di vedere i segni delle cose nuove che stanno maturando. Siamo in crisi? Confrontandoci con altre istituzioni che hanno nella dimensione comunitaria una dimensione costitutiva, forse la rilevanza e consistenza delle chiese nella vita di così tante persone meritano un diverso giudizio e incoraggiano ad assumere la nostra vocazione con rinnovata determinazione, ricercando le forme più adatte per l’oggi. Nella sua relazione al Sinodo la Tavola ricorda che, in ogni caso, vivere nel patto offerto dal Signore significa camminare, dentro e fuori le chiese, nella fiducia e non nella paura; nella solidarietà e non nella competizione».

– Nella gestione dei migranti e dei richiedenti asilo, ma anche nel campo dell’educazione e dei minori, vediamo consolidarsi l’interazione tra le nostre chiese e strutture diaconali e le istituzioni locali e pubbliche: come si esce dall’idea di “supplenza” rispetto allo Stato, nell’ottica di una diaconia che faccia irrobustire il più possibile le persone in difficoltà?

«Le nostre chiese, nello sviluppo del loro impegno diaconale, hanno sempre avuto chiari alcuni principi: l’idea di un servizio emancipante, che non crea dipendenze, ma supporta i più fragili e vulnerabili in un processo di crescita e autonomizzazione, in vista di un’attiva partecipazione di tutti e tutte al perseguimento del bene comune; e quello della collaborazione con istituzioni pubbliche mai delegittimate, anzi sempre richiamate al loro compito fondamentale di garantire l’universalità dei diritti, equità e giustizia nell’accesso alle condizioni essenziali per una vita dignitosa di ogni essere umano. Noi non siamo cambiati, ma il quadro politico generale sì, con un evidente indebolimento dell’investimento nel welfare pubblico e la crescente privatizzazione di funzioni essenziali. In questo quadro, è fondamentale la riflessione sui limiti di un’eventuale funzione di supplenza, accettabile solo in quanto temporanea e comunque in un orizzonte trasformativo e non di legittimazione di fatto di un sistema che perpetua o addirittura accresce la forbice fra garantiti e non garantiti».

– Una moderatora metodista nell’anno in cui si ricorda il Patto d’Integrazione: quali emozioni?

«Io sono cresciuta nella realtà dell’integrazione, ma l’emozione più grande oggi non è personale, è quella del riconoscere il valore del cammino di unione scelto da valdesi e metodisti tanti anni fa in un mondo sempre più diviso; e la lungimiranza di un modello che ha offerto la cornice ideale per altri percorsi di integrazione e processi interculturali che hanno reso molte nostre chiese laboratori di costruzione di società in cui l’unità, lungi dall’essere basata sull’omogeneità, può coniugarsi e prosperare con la valorizzazione di identità diverse ma non chiuse, capaci di collaborare ed arricchirsi reciprocamente».

– Il mondo e la società, attraversati come sono, da crisi profonde, drammi sociali, guerre e mancanza di senso, guardano anche alle nostre chiese come a un interlocutore: che parola possiamo e dobbiamo dire? Non dovremmo dare innanzitutto una parola teologica? 

«Certo, e che altro servizio, che Diakonia siamo chiamati a rendere se non quello di una lettura critica dell’esistenza, della realtà in noi e intorno a noi alla luce dell’Evangelo e insieme del riconoscere e indicare in questa realtà lacerata e contraddittoria la presenza di Dio e i segni del suo Regno? Critica, cura, speranza, orientamento e forza radicate nella visione dei nuovi cieli e della nuova terra. Amore e utopia, per usare le parole del teologo Jürgen Moltmann: non limitarsi alla cura delle ferite senza la prospettiva di un mondo nuovo, e insieme resistere alle ideologie antiumane che calpestano la dignità degli esseri umani e distruggono ogni legame sociale, isolando gli individui in competizioni feroci».

[Foto: Riforma.it/Pietro Romeo]