Che cosa muove Hamas e chi lo comanda veramente

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Riproponiamo l'analisi di Claudio Fontana per la Fondazione Oasis sulla base della stampa internazionale.

Mentre la situazione a Gaza continua drammaticamente a peggiorare (ne scriviamo poche righe sotto), a più di due mesi dall’attacco di Hamas contro Israele ci si continua a interrogare sulla strategia del movimento islamista e sulle motivazioni più profonde delle sue azioni contro lo Stato ebraico. Un segno sia della gravità dell’accaduto che della scarsa attenzione prestata per anni ad Hamas e al suo radicamento nella Striscia di Gaza. Nell’ultimo periodo il centro della resistenza palestinese sembrava essere la Cisgiordania, ciò che ha contribuito all’effetto sorpresa degli attacchi del 7 ottobre, sferrati al contrario proprio da Gaza. La sensazione di spaesamento emersa a mano a mano che si comprendeva la ritrovata centralità della Striscia nella lotta palestinese è dovuta a una erronea comprensione del funzionamento della leadership di Hamas, secondo un approfondimento pubblicato da Foreign Affairs. Come ha scritto la politologa franco-siriana Leila Seurat sulla rivista americana, si pensava in particolare che le decisioni venissero prese dai vertici politici di Hamas all’estero, ma tale convinzione è errata almeno dal 2017, anno in cui Yahya Sinwar ha preso il potere nella Striscia e messo in moto uno spostamento della struttura organizzativa di Hamas proprio verso quell’area. L’aumento del peso della leadership locale del movimento islamista è dovuto inoltre a due elementi di più lungo periodo, sostiene Seurat: il primo è la vittoria alle elezioni del 2006, che ha fornito ad Hamas le risorse generate dal controllo del territorio, mentre il secondo è lo scoppio della guerra civile siriana. Il conflitto in Siria, infatti, ha provocato la dispersione tra Doha e il Cairo della leadership all’estero di Hamas, prima basata a Damasco. Inoltre, mentre fino al 2017 il ramo politico di Hamas era in pessimi rapporti con l’Iran, proprio a causa della guerra in Siria (il movimento islamista sosteneva i ribelli anti-Assad), la leadership locale nella Striscia si è sempre premurata di mantenere relazioni cordiali con la Repubblica Islamica. Con il passaggio di Ismail Haniyeh da capo di Hamas nella Striscia a vertice dell’ufficio politico a Doha, e la conseguente ascesa di Sinwar a Gaza, “gli astri si sono allineati”: tanto a Doha quanto a Gaza comandavano figure che beneficiavano di buoni rapporti con Teheran. Una volta consolidata la presa sul potere locale, Sinwar e gli altri leader all’interno della Striscia hanno via via fatto capire più apertamente la loro scarsa considerazione dei capi – come Haniyeh – che godono di una lussuosa vita all’estero.

Tuttavia, questa drammatica fase evidenzia anche che c’è qualcosa di più profondo delle relazioni tra la leadership di Hamas e le potenze regionali. Come ha messo in luce Graeme Wood su The Atlantic, nell’ultimo periodo c’è stato uno scatto in avanti anche nella retorica utilizzata da Hamas. Lo dimostra il fatto che Fathi Hammad, membro del movimento della resistenza islamica, ha dichiarato in televisione che il prossimo passo di Hamas sarebbe stato quello di dichiarare l’istituzione del califfato con sede a Gerusalemme. L’affermazione è inusuale per un movimento nazionalista come Hamas ma mostra – anche secondo Anshel Pfeffer – che «Hamas, come il sionismo, è radicato nella religione e questo rende l’attuale conflitto fondamentalmente religioso». Tuttavia, secondo Wood la religiosità di Hamas è decisamente più «flessibile» di quella dell’ISIS. Un gruppo religioso, ha scritto Wood, può piegare i propri obiettivi politici alle esigenze della propria interpretazione religiosa, ciò che fece ISIS, oppure può piegare la propria interpretazione della religione alle esigenze della politica moderna. Nonostante tutto, l’opinione di Wood è che Hamas rientri nella seconda categoria perché anche nel suo statuto fondativo i richiami all’Islam sono vaghi e, dunque, flessibili: nel documento si afferma che Hamas «trae le sue linee guida dall’Islam, in contrasto con l’ISIS che trae le sue leggi dall’Islam».

È alla luce di questa flessibilità che possiamo probabilmente inquadrare le frasi di Abu Marzouk, capo dell’ufficio internazionale di Hamas a Doha, il quale in una lunga intervista ha ventilato l’ipotesi che Hamas possa ricomporre la frattura con Fatah ed entrare a far parte dell’OLP. Se ciò avvenisse, Hamas sarebbe indotto a compiere un passo decisivo: riconoscere, proprio come ha fatto l’OLP, l’esistenza di Israele. Interrogato in merito alla posizione di Hamas rispetto allo Stato di Israele, Marzouk ha affermato: «stiamo cercando di far parte dell’OLP e abbiamo detto che rispetteremo gli obblighi dell’OLP». Il rappresentante di Hamas ha inoltre sottolineato, come si legge su Al-Monitor, che gli israeliani devono avere i loro diritti, «ma non a spese di altri». Non è chiaro che peso dare a queste dichiarazioni: da un lato, si tratta di un significativo cambiamento nella posizione ufficiale di Hamas, che anche nell’aggiornamento statutario del 2017 non si era spinto fino a riconoscere l’esistenza di Israele; dall’altro queste dichiarazioni, rese proprio mentre i politici e i funzionari israeliani rifiutano sempre più esplicitamente la soluzione dei due popoli-due Stati, possono puntare ad attribuire allo Stato ebraico l’ostacolo al raggiungimento di una soluzione al conflitto. Senza realmente richiedere una modifica delle azioni di Hamas.

Se quindi la situazione a Gaza potrebbe favorire un riavvicinamento tra le due principali forze politiche palestinesi, anche tra gli ulema internazionali si è registrata una certa convergenza nella fase successiva al 7 ottobre. Su Middle East Eye, lo studioso anglo-bangladese Usaama al-Azaami ha messo in evidenza come molti ulema di Paesi autoritari abbiano espresso una posizione molto critica nei confronti dello Stato ebraico, nonostante i loro governi abbiano fatto accordi con Israele e, per esempio nel caso egiziano, abbiano collaborato con Gerusalemme nella gestione di Gaza. Una delle figure citate da al-Azaami è Ali Gomaa, sostenitore del presidente al-Sisi, che recentemente si è riferito a Israele chiamandolo «entità sionista» e che ha definito il sionismo un «movimento nazista». Nonostante sia un deciso oppositore dei Fratelli musulmani, Gomaa ha espresso chiaramente il proprio sostegno ad Hamas, motivandolo con la reazione all’aggressione sionista. Anche il saudita Abdulrahman al-Sudais, sempre citato su Middle East Eye, da un lato ha sottolineato che la guerra non deve portare i musulmani a mettere in discussione le decisioni dei propri governanti, ma dall’altro, ha definito le forze israeliane «sionisti aggressori e occupanti».

(Fonte: Fondazione Oasis - Claudio Fontana; Foto: Middle East Monitor)