Esecuzioni, arresti e repressione: l’Iran a due anni dalla morte di Mahsa Amini

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Nel secondo anniversario dell’uccisione della giovane curda per mano della polizia della morale le autorità impongono ancora il silenzio e la censura. Sulla famiglia, confinata ai domiciliari, la minaccia del carcere in caso di cerimonie pubbliche. Fragilità e divisioni nelle opposizioni favoriscono gli ayatollah. Il neo presidente promette più libertà in tema di internet e hijab. Ne parla Dario Salvi su AsiaNews.

Numeri record per esecuzioni capitali, con un aumento fino all’80% rispetto al recente passato; arresti di manifestanti e familiari delle vittime della repressione governativa; genitori cui viene impedito di rendere omaggio alla tomba della loro figlia, mentre decine di detenute lanciano in concomitanza uno sciopero della fame per mantenerne viva la memoria. A due anni dall’uccisione il 16 settembre 2022 all’uscita da una metro di Teheran per mano della polizia della morale, che l’aveva fermata perché non indossava correttamente l’hijab, il velo obbligatorio, è ancora viva la memoria di Mahsa Amini. E del movimento sorto in seguito alla morte della 22enne curda, quella rivolta popolare al grido di “Woman, Life, Freedom” che gli ayatollah hanno provato a soffocare, ma che resta fonte di ispirazione, in una battaglia per libertà e diritti che unisce una fetta consistente della popolazione. Un rivolta popolare, sedata nel sangue ma non cancellata, che trova nell’hijab il simbolo e lo strumento dell’oppressione femminile, come sottolinea dal carcere di Evin dove si trova rinchiusa la Nobel per la pace Narges Mohammadi. “La lotta - scrive l’attivista in un messaggio rilanciato sui social e diventato virale - non è solo per rivendicare il diritto delle donne di vestirsi come vogliono, ma anche per contrastare la tirannia della dittatura teocratica. Non esiste democrazia, senza i diritti delle donne”.

Primato nelle esecuzioni

In 24 mesi, tanto è passato dall’uccisione della giovane curda - e poco o nulla è cambiato con la morte nell’incidente di elicottero del presidente ultraconservatore Ebrahim Raisi e l’elezione del moderato Masoud Pezeshkian - l’Iran si conferma ai vertici globali per il ricorso al boia. Un utilizzo sistematico della pena capitale non solo nei reati di droga, ma per reprimere anche il dissenso interno con una crescita record dell’80% in due anni e il più alto tasso pro capite documentato a livello mondiale. Attivisti e movimenti legati alla società civile, infatti, collegano il trend a una più ampia strategia adottata dalla Repubblica islamica per instillare paura, mentre la sentenza è spesso l’esito di processo in cui manca trasparenza e non sono soddisfatti gli standard internazionali. Il gruppo Iran Human Rights (Ihr) riferisce che da ottobre 2022 a settembre 2024, almeno 1.452 persone sono state impiccate, con un aumento significativo rispetto a 779 nei due anni precedenti le proteste del 2022. Secondo Human Rights Watch (Hrw), la maggior parte delle condanne a morte è l’esito di processi sommari o con capi di accusa (e prove) assai vaghi. Solo nell’agosto 2023, l’Alto Commissario Onu per i diritti umani ha riportato almeno 93 esecuzioni, anche se Ihr e Hrana suggeriscono che la cifra vada ben oltre le 100. Alcuni mesi del 2023, come maggio, hanno visto numeri eccezionalmente alti, con 145 condanne seguite. Dal gennaio 2024 sono state registrate oltre 410 esecuzioni, con una ulteriore escalation.

Dissenso, repressione e impunità

L’ira generale per la morte di Mahsa Amini, sfociata nel movimento “Woman, Life, Freedom”, ha rappresentato la sfida più grande per la Repubblica islamica e il regime degli ayatollah dalla fondazione nel 1979. E la conseguente repressione è stata altrettanto sanguinosa, con le oltre 550 vittime tra cui decine di bambini, più di 22mila arresti e almeno 10 manifestanti finiti fra le mani del boia. Nei giorni scorsi il padre della giovane, Amjad Amini, ha rivendicato il diritto della sua famiglia - come delle altre che piangono l’uccisione di congiunti per mano dello Stato - di onorarne la memoria in cerimonie laiche o religiose. Tuttavia, le autorità hanno risposto usando il pugno di ferro e cercando di smorzare sul nascere ogni tentativo di commemorazione, costringendo i parenti della giovane, in primis i genitori, a restare confinati ai domiciliari sotto la minaccia di arresto e trasferimento in carcere. Se gli iraniano all’estero, dall’Europa agli Stati Uniti sino all’Australia hanno promosso dimostrazioni e proteste, in patria si registrano tentativi di scioperi - subito bloccati - in almeno 11 città dell’Azarbaijan occidentale e nel Kurdistan.

Nei giorni precedenti l’anniversario, le forze di sicurezza e i reparti dell’intelligence hanno prelevato attivisti e familiari delle vittime, oltre a inasprire i controlli nella città natale di Mahsa, Saqqez, con posti di blocco e agenti in borghese a pattugliare le strade. Scene simili a quelle dello scorso anno, nel primo anniversario della morte, con la famiglia agli arresti nel timore di nuove sollevazioni popolari. In un rapporto la Missione internazionale indipendente di inchiesta sull’Iran, promossa dalle Nazioni Unite, avverte che Teheran ha “intensificato i suoi sforzi per... schiacciare le iniziative residue dell’attivismo femminile”. E i metodi usati equivalgono a “crimini contro l’umanità”, sebbene nessun leader abbia sinora dovuto renderne conto o sia stato ritenuto responsabile. “A due anni dalle manifestazioni, i dirigenti della Repubblica islamica non hanno ripristinato lo status quo ante, né hanno recuperato la loro legittimità perduta” accusa Roya Boroumand, cofondatrice del Centro Abdorrahman Boroumand con sede negli Stati Uniti.

La speranza di un popolo

Il tema dei diritti delle donne e, più nello specifico, la questione del velo sono stati al centro ieri della prima conferenza stampa di Pezeshkian dall’inizio del mandato a luglio. Il presidente ha assicurato che la polizia della morale non “infastidirà” più le donne, dando seguito - almeno a parole - alle promesse fatte in campagna elettorale in cui si era detto contrario alle pattuglie dislocate per vie e piazze a controllare l’abbigliamento femminile. Egli ha inoltre promesso un allentamento delle restrizioni di internet e social, considerandola fra le “priorità” del suo governo. Parole - e annunci - che alimentano la speranza degli iraniani per un futuro di maggiori diritti e libertà, e che per questo hanno avuto ampia diffusione in queste ore in rete. Analisti ed esperti sottolineano che uno dei risultati più significativi delle proteste legate al movimento “Woman, Life, Freedom” almeno in una prima fase sia stato quello di unificare il popolo iraniano contro una leadership violenta, retrograda e repressiva. Le manifestazioni hanno toccato oltre 160 città dalle metropoli come Teheran, Mashhad, Isfahan, Tabriz e Sanandaj a centri urbani di dimensioni inferiori, sino ai villaggi di confine dal sud-est col Pakistan o all’estremo nord curdo.

Manifestazioni cui hanno aderito studenti, lavoratori, membri delle minoranze etniche e religiose con in prima fila le donne, protagoniste di questa battaglia per la libertà. L’ondata di dissenso e protesta se, da un lato, ha messo in crisi il regime degli ayatollah che ha però saputo reagire, compattarsi e irrigidirsi ancor più, dall’altro ha evidenziato le divisioni interne a un’opposizione che, sul piano politico e istituzionale, resta fragile e inconsistente. Il vero problema, infatti, è la mancanza di “alternative” interne all’attuale leadership teocratica che può così restare salda al potere, come sottolinea lo studioso Arash Azizi, autore del volume “Ce que veulent les Iraniens”.  Ciononostante, egli aggiunge di credere che “l’Iran non tornerà più alla situazione di prima del 2022” e nel breve-medio periodo “conoscerà stravolgimenti radicali”. In una intervista concessa a IranWire sotto pseudonimo, una figura di primo piano del cinema e della cultura nel Paese sottolinea che l’unità resta il valore fondamentale per poter incidere nelle scelte: “Se non restiamo uniti, cadremo uno ad uno”. Per questo, prosegue, “saranno anche passati solo due anni dalla notte in cui le donne di Teheran si sono riunite fuori dall’ospedale di Kasra o da quando le donne di Saqqez si sono tolte il velo al cimitero di Aichi, ma per noi - per quante sono diventate ‘noi’ sotto una pioggia di pallini, all’ombra dei manganelli, fuggendo da agenti in borghese, resistendo agli interrogatori - sembra una vita intera. Una vita dura, ma - conclude - piena di speranza”.

[Questo articolo di Dario Salvi è stato pubblicato sul sito di AsiaNews, al quale rimandiamo; Photo Credits: Orient XXI]