Gaza: dalla guerra alla distopia

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Il Washington Post svela il piano per la ‘Riviera di Gaza’ ideato per compiacere Donald Trump: tra turismo e nuove città ‘intelligenti’, gli Usa amministrerebbero la Striscia per 10 anni. Il punto di Alessia De Luca per l’ISPI.

Dietro la ‘Riviera di Gaza’ raccontata nel video distopico rilanciato da Donald Trump a inizio febbraio, c’era più di una deprecabile boutade. Esisterebbe un piano postbellico per la Striscia, in circolazione all’interno dell’amministrazione Usa, che prevede di imporre sulla Striscia una sorta di protettorato statunitense per almeno dieci anni, trasformandola in una sfavillante località turistica e in un polo manifatturiero ad alta tecnologia. A rivelarlo è il un prospetto di 38 pagine visionato dal Washington Post che, riferisce il quotidiano, prevede il trasferimento “temporaneo” degli oltre due milioni di abitanti di Gaza, tramite partenze “volontarie” verso un altro Paese o in zone “protette” all’interno dell’enclave durante la ricostruzione. Il rendering del progetto mostra una città che ricorda Dubai, edificata su un territorio inesistente con fiumi, campi irrigati, piante che lambiscono la spiaggia. A chi possiede un terreno, l’amministrazione americana offrirebbe un token digitale in cambio del diritto di riqualificare la propria proprietà, da utilizzare per finanziare una nuova vita altrove o eventualmente riscattabile per un appartamento in una delle “nuove città basate sull’intelligenza artificiale” che saranno costruite a Gaza. Ogni palestinese che scegliesse di andarsene riceverebbe un pagamento in contanti di 5mila dollari e sussidi per coprire quattro anni di affitto altrove, oltre a forniture di cibo per un anno. Il progetto del Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation Trust (GREAT Trust) sarebbe stato elaborato dagli stessi manager israeliani che hanno creato e avviato la controversa Gaza Humanitarian Foundation (GHF), sostenuta da Stati Uniti e Israele, coinvolta nelle numerose stragi di civili durante le operazioni di distribuzione degli aiuti umanitari. La pianificazione finanziaria è stata curata da un team che all’epoca lavorava per il Boston Consulting Group, colosso della consulenza strategica che a poche ore dalla pubblicazione ne ha formalmente disconosciuto ogni paternità.

Nessun accordo in vista? 

Con negli occhi l’idea di scintillanti resort al posto delle attuali tonnellate di macerie e distruzione, secondo i media americani, il presidente Donald Trump non si opporrebbe al piano di occupazione della Striscia che, nelle intenzioni dei vertici israeliani, dovrebbe portare alla sconfitta definitiva di Hamas. La prospettiva suggerita dal presidente Usa sarebbe di due settimane. “Trump ritiene che Hamas non restituirà gli ostaggi rapiti: li userà per sopravvivere – rivela il canale televisivo Channel 12 – e fatica a comprendere perché non si possa piegare Hamas in tempi brevi”. Ieri, intanto il primo ministro Benjamin Netanyahu ha riunito il governo in un luogo segreto per la minaccia di ritorsioni da parte degli Houthi dopo l’uccisione, giovedì scorso in un raid condotto dall’aviazione israeliana, del premier e di alcuni alti esponenti dei ribelli yemeniti. Il gabinetto di guerra ha ribadito che non accetterà la tregua temporanea, accettata invece da Hamas. Nel corso della riunione, che si è conclusa nelle prime ore del mattino, il capo di Staro maggiore dell’esercito israeliano Eyal Zamir – già in rotta con Netanyahu – ha espresso sostegno a un accordo per il rilascio degli ostaggi, ma il primo ministro ha chiarito che “non c’era alcun accordo all’ordine del giorno”. 

Israele pronta ad annettere la Cisgiordania? 

Alla drammatica situazione sul terreno a Gaza, dove nelle ultime ore sarebbero morte circa cento persone, si aggiunge un nuovo fronte politico: il governo israeliano sarebbe in procinto di prendere il controllo amministrativo di diverse parti della Cisgiordania, sostanzialmente quelle dove maggiore è la concentrazione dei coloni, cancellando ogni pur recondita ipotesi di uno Stato palestinese. A dare il colpo di grazia al progetto ‘due popoli due Stati’, già moribondo, sarebbe l’approvazione della costruzione della nuova colonia E1 che spaccherà in due la West Bank. L’intenzione – secondo il sito di informazioni Axios – sarebbe già stata comunicata a diversi governi europei e in una telefonata del ministro degli Esteri Gideon Sa’ar al segretario di Stato Usa Marco Rubio. Si tratterebbe di una ritorsione per l’imminente riconoscimento della Palestina da parte di diversi paesi occidentali a margine dell’Assemblea generale dell’Onu che si aprirà a New York il 9 settembre, su spinta della Francia di Emmanuel Macron. Proprio come ritorsione a questa iniziativa politica, gli Stati Uniti hanno ritirato i visti a decine di funzionari palestinesi, compreso quello del presidente dell’Anp Abu Mazen. Lo riferisce il dipartimento di Stato sottolineando che l’impegno dell’amministrazione Trump è di “non premiare il terrorismo”. “Prima che l’Olp e l’Autorità Palestinese possano essere considerate partner per la pace, devono ripudiare sistematicamente il terrorismo, incluso il massacro del 7 ottobre”, si legge nella nota del dipartimento di Stato. “L’Autorità Palestinese deve inoltre porre fine ai suoi tentativi di aggirare i negoziati attraverso campagne internazionali, inclusi appelli alla Cpi (Corte penale internazionale), e sforzi per ottenere il riconoscimento unilaterale di un ipotetico Stato palestinese”.  

Una flotta per Gaza? 

La decisione, senza precedenti, di impedire l’accesso al Palazzo di Vetro di New York ai funzionari palestinesi ha provocato la ferma reazione dell’Unione europea, che ha chiesto di cancellare il provvedimento. Ma è sempre più evidente l’incapacità degli europei nel contrastare le iniziative americane. Così, mentre l’alta rappresentante per la politica estera Kaja Kallas lamenta che “gli Stati membri non sono d’accordo su come far cambiare rotta al governo israeliano” e che “non c’è unanimità per sanzioni contro Israele, nemmeno contro i ministri estremisti del governo Netanyahu” e neanche una maggioranza qualificata “per escludere le start-up israeliane dal programma di ricerca Horizon”, sono partite ieri da Genova e Barcellona le prime imbarcazioni della Global Sumud Flotilla, grande iniziativa indipendente per cercare di portare aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Altre imbarcazioni salperanno nei prossimi giorni da Catania e Tunisi, con a bordo attivisti, giornalisti e politici da 44 Paesi. La flotta, che potrebbe raggiungere Gaza intorno al 14 o 15 settembre, rappresenta il più grande tentativo indipendente mai dispiegato per rompere il blocco marittimo imposto da Israele al territorio palestinese, e ha già provocato le ire del governo israeliano: il ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir ha presentato un piano volto a fermare gli attivisti che, ha detto, “saranno trattati come terroristi”. 

Il commento Di Valeria Talbot, Head Osservatorio MENA dell’ISPI

“A quasi due anni dall’inizio della guerra a Gaza la catastrofe umanitaria e la distruzione nella Striscia hanno raggiunto proporzioni immani. A marzo le Nazioni Unite indicavano in oltre 50 miliardi i costi della ricostruzione – oltre il 70% delle abitazioni è stato distrutto – e un anno prima stimavano un periodo di 14 anni per la rimozione delle macerie dal territorio palestinese. Oggi queste cifre potrebbero essere con buona probabilità riviste al rialzo. Mentre avanza l’offensiva su Gaza City e aumenta il numero delle vittime civili sotto i colpi israeliani, oltre un milione di persone è costretto a fuggire ma non sa dove. Non ci sono più luoghi sicuri in questo fazzoletto di terra. Che Israele abbia reso la Striscia un posto invivibile per i palestinesi è una drammatica realtà, così come è drammatica la mancanza di piani credibili e condivisi per il futuro di Gaza e della sua gente”.

[Fonte e Foto: ISPI]