Gaza: Flotilla e tensioni

L’Italia invia una seconda fregata per prestare eventuale soccorso alla missione umanitaria verso Gaza. Ma precisa: “Non muoviamo navi militari per fare la guerra a un Paese amico”. Il focus dell’ISPI.
Dopo la Fasan, l’Italia invia un’altra fregata militare, l’Alpino, per prestare eventuale soccorso ai connazionali che partecipano alla Global Sumud Flotilla, la missione di attivisti internazionali in rotta verso la Striscia di Gaza. Lo ha annunciato il ministro della Difesa, Guido Crosetto, condannando gli attacchi con droni, bombe sonore e spray urticanti che hanno colpito alcune delle imbarcazioni mentre si trovavano in acque internazionali a sud di Creta. In un’informativa urgente alla Camera dei Deputati il ministro ha chiarito: “Non è nostra intenzione muovere le navi militari per fare la guerra a un Paese amico”, con riferimento a Israele. E ancora: “Il clima è preoccupante. E noi non siamo in grado una volta che le navi saranno uscite dalle acque internazionali, e saranno entrate nelle acque di un altro Stato, di garantirne la sicurezza”, ricordando che Israele considera la missione della Flotilla “un atto ostile”. Invitando a “calmare i toni” in un momento di sempre più manifesto malcontento dell’opinione pubblica italiana, europea e internazionale per il perpetuarsi dei massacri nella Striscia. Crosetto ha rimarcato che, una volta che le imbarcazioni saranno entrate in acque considerate israeliane, la situazione “sfuggirà dal controllo e dalla possibilità di agire di tutti noi”.
Rompere il blocco?
È la terza volta che le barche della Global Sumud Flotilla, salpate il 1 settembre, vengono colpite. Il 9 settembre era stata colpita una barca ancorata al porto tunisino di Sidi Bou Said, e poi un’altra il 10 Settembre, sempre in acque tunisine. Secondo gli equipaggi gli attacchi, condotti con droni e dispositivi esplosivi e incendiari, hanno disattivato i sistemi di comunicazione di emergenza, danneggiando le imbarcazioni con l’obiettivo di renderle inutilizzabili. Nessuno è rimasto ferito. Anche se non ci sono rivendicazioni, un dossier del Coordinamento della Global Sumud Flottilla attribuisce le circostanze dell’accaduto ad attività israeliane. Le barche, 52 in tutto partite a inizio settembre da vari paesi (Italia, Spagna, Grecia, Tunisia) si stanno dirigendo infatti verso la Striscia di Gaza per tentare di consegnare cibo, medicinali e altri beni essenziali alla popolazione palestinese assediata e per rompere il blocco navale di Israele sull’enclave, in corso dal 2007. Non è la prima volta che flottiglie di attivisti tentati di rompere l’assedio imposto: nel 2010, la Mavi Marmara, una nave con a bordo più di 500 passeggeri, salpata nell’ambito di una missione umanitaria volta a rompere il blocco, fu attaccata dalle forze israeliane in acque internazionali. Nell’assalto morirono dieci persone e oltre 50 rimasero ferite. Oggi, pur non rivendicando nessun coinvolgimento negli attacchi, Israele fa sapere che non consentirà alle navi di entrare “in una zona di combattimento attiva” e non permetterà “la violazione di un legittimo blocco navale”, ma dicendosi pronto a impegnarsi “in qualsiasi accordo costruttivo per trasferire gli aiuti in modo legale e pacifico”.
Cosa dice il diritto?
La legittimità del blocco navale imposto da Israele sulla Striscia di Gaza è dibattuta. Nel 2011 una commissione d’inchiesta Onu lo definì “legittimo” nel contesto di un conflitto internazionale. Questa valutazione fu però fortemente contestata – e lo è tuttora – da esperti e organizzazioni internazionali, secondo i quali la situazione di Gaza non può essere assimilata a una guerra tra due Stati e Hamas non può essere considerata la legittima rappresentanza della popolazione della Striscia. Se è vero che non esiste una convenzione Onu specifica e vincolante che regoli in modo dettagliato i blocchi navali nei conflitti armati, il Manuale di San Remo del 1995 è spesso utilizzato da Israele per giustificare il proprio operato, mentre le critiche internazionali si concentrano sulla violazione di alcuni principi fondamentali di tale trattato: il blocco infatti – per essere legittimo – non dovrebbe infliggere danni sproporzionati alla popolazione civile, non deve affamarla né impedire l’arrivo di aiuti umanitari. Tutte condizioni che non sono riconosciute nella condotta israeliana a Gaza. Inoltre, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982, nota anche come Convenzione di Montego Bay, riconosce il principio del “passaggio inoffensivo”, che consente alle navi straniere di attraversare le acque territoriali di uno Stato senza arrecare danno. In base al trattato, poiché le navi della Flotilla non rappresentano una minaccia per la sicurezza di Israele – a bordo non vi sono armi – dovrebbero poter raggiungere la Striscia di Gaza senza violare il diritto internazionale del mare. Nel complesso oggi, Ong, attivisti, giuristi e diversi governi considerano illegale il blocco israeliano su Gaza, sottolineando come esso configuri una forma di punizione collettiva nei confronti della popolazione palestinese, in aperto contrasto con il diritto internazionale.
Niente cambio di programma?
Se è vero che le imbarcazioni della Flottilla puntano a raggiungere Gaza nei prossimi giorni, attualmente si trovano in acque internazionali, dove Israele non ha alcuna giurisdizione. L’esercito israeliano non ha risposto alle domande relative all’attacco con i droni, ma il Ministero degli Esteri ha accusato gli organizzatori di essere legati a Hamas. Tuttavia, negli ultimi mesi Israele ha ignorato gli ordini della Corte internazionale di giustizia di facilitare la consegna di cibo e rifornimenti urgentemente necessari a Gaza ed è stato accusato di aver ucciso a colpi d’arma da fuoco civili affamati nei centri di distribuzione degli aiuti. Nel tentativo di sbloccare lo stallo ed evitare ulteriori tensioni, si fa strada la proposta di far attraccare le navi in un porto cipriota e affidare gli aiuti a bordo al Patriarcato latino di Gerusalemme per poi trasportarli a Gaza. Ma per i promotori della Flotilla un simile accordo, di fatto già respinto al mittente, rischia di svuotare di significato il senso stesso della missione: “L’obiettivo rimane rompere l’assedio e consegnare gli aiuti a Gaza – fa sapere il collettivo delle imbarcazioni – Qualsiasi attacco o ostruzione alla missione costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale”.
Il commento di Valeria Talbot, Head ISPI MENA Centre
“Dalle piazze alle università fino alle vie del mare, la società civile in tutto il mondo continua a mobilitarsi a sostegno della popolazione palestinese di Gaza, martoriata da due anni di guerra, affamata e senza un posto sicuro dove trovare rifugio. Un movimento dal basso che è cresciuto, di fronte all’inazione di molti stati, per non stare dalla parte sbagliata della storia. Una mobilitazione di cui tanti governi dovranno tenere conto per non trovarsi, loro, dalla parte sbagliata della storia”.
[Foto e Fonte: ISPI]