Gaza: l’occupazione annunciata e il silenzio dell’Europa

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Il gabinetto di guerra israeliano approva il piano di Netanyahu per l’occupazione integrale di Gaza, e il silenzio di Bruxelles pesa come una complicità. Il punto di Alessia De Luca per l’ISPI.

Dopo 10 ore di riunione, il gabinetto di guerra israeliano ha dato il via libera al piano di occupazione della Striscia di Gaza proposto dal premier Benjamin Netanyahu. “Intendiamo controllare tutta Gaza. Ma non vogliamo tenerla. Vogliamo un perimetro di sicurezza. La consegneremo alle forze arabe che la governeranno correttamente” ha dichiarato Netanyahu in un’intervista a Fox News poco prima di annunciare la decisione. Ma secondo la stampa israeliana, il vertice è stato segnato da forti tensioni: il capo di stato maggiore delle forze armate israeliane (Idf) Eyal Zamir si è opposto fermamente alla proposta di Netanyahu sostenendo che un’operazione del genere metterà in pericolo gli ostaggi e comporterà la necessità di governare su un territorio abitato da 2 milioni di palestinesi in condizioni umanitarie terrificanti. Le obiezioni però non sono bastate: alla fine il gabinetto di guerra ha approvato il piano che prevede che tutti i civili palestinesi siano evacuati da Gaza City entro il 7 ottobre, mentre sarà imposto un assedio ai militanti di Hamas e, contemporaneamente, verrà condotta un’offensiva di terra a Gaza City. Dichiarazioni a parte, resta difficile comprendere in che modo una simile operazione possa garantire la sicurezza dei civili o portare realmente alla liberazione degli ostaggi. Israele controlla già l’85% del territorio della Striscia, mentre la popolazione palestinese è segregata nella porzione residua. “I piani di Netanyahu confermano il suo desiderio di liberarsi degli ostaggi e sacrificarli per perseguire i suoi interessi personali e la sua agenda ideologica estremista” ha dichiarato Hamas, che detiene ancora 49 ostaggi, 27 dei quali già deceduti.

Cosa prevede il piano di occupazione?

I dettagli dell’operazione sono coperti da segreto di Stato. Ma secondo fonti interne citate dalla stampa israeliana, l’occupazione dovrebbe avvenire per fasi: prima il controllo del Nord della Striscia, poi l’espansione verso Sud. L’operazione dovrebbe durare circa quattro mesi, mobilitare tra le quattro e le cinque divisioni (fino a 100mila uomini) e garantire il controllo sia del perimetro (circa 70 km) sia delle aree dove saranno concentrati gli sfollati. Poiché l’esercito regolare non è sufficiente, il governo farà nuovamente ricorso ai riservisti, sempre più numerosi ma anche sempre più restii a prestare servizio. Secondo un alto funzionario israeliano, l’evacuazione verso “aree alternative” dovrà essere completata entro il 7 ottobre, data in cui inizierà formalmente la presa del potere da parte dei militari. La dichiarazione ufficiale del governo indica cinque obiettivi principali: lo smantellamento di Hamas, la restituzione di tutti gli ostaggi (vivi o morti), la smilitarizzazione completa della Striscia, il mantenimento del controllo israeliano sulla sicurezza anche dopo la guerra e l’istituzione di un’amministrazione civile alternativa, diversa sia da Hamas sia dall’Autorità Nazionale Palestinese. Non è chiaro a chi sarà affidata tale gestione, ma si parla persino di “agenzie private”. In ogni caso, qualsiasi entità legata a Israele sarà considerata da Hamas una “forza occupante” priva di legittimità.

In gioco c’è anche l’identità di Israele?

Intanto, in Israele crescono le proteste. Centinaia di manifestanti sono scesi in piazza per scongiurare la realizzazione di un piano che, avvertono, “sarà la definitiva condanna a morte” per i prigionieri nelle mani di Hamas. Le famiglie degli ostaggi hanno marciato per le strade di Tel Aviv e occupato strade e autostrade, contro il governo la cui decisione, riferiscono “è una dichiarazione ufficiale di abbandono degli ostaggi”, che ignora completamente “i ripetuti avvertimenti dei vertici militari e il chiaro desiderio della maggior parte dell’opinione pubblica israeliana”. Nella dichiarazione il governo viene accusato di agire contro l’interesse nazionale con una mossa “sciocca”, di “inganno e imperdonabile negligenza morale e di sicurezza”, La pressione cresce anche dall’estero. Migliaia di leader delle comunità ebraiche nel mondo, soprattutto da Stati Uniti e Regno Unito, hanno firmato una lettera pubblica a Netanyahu, denunciando i “danni duraturi” arrecati dalle politiche del governo alla reputazione di Israele e dell’ebraismo stesso, e avvertendo che il linguaggio e le scelte dell’esecutivo stanno alimentando l’antisemitismo globale. I firmatari chiedono un accordo immediato per la restituzione degli ostaggi, la fine della guerra e un impegno chiaro a non occupare Gaza né sostenere forme di espulsione dei civili palestinesi. Invocano anche un’azione forte per reprimere la violenza dei coloni in Cisgiordania.

Il silenzio dell’Europa ci rende complici?

L’occupazione della Striscia offre a Netanyahu una guerra perpetua che può permettergli di sfuggire alla giustizia del suo Paese. I suoi alleati suprematisti, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich portano a casa il progetto di ricolonizzazione della Striscia. La parola occupazione, infatti, coincide con un’annessione di fatto. A distanza di 20 anni, Netanyahu si appresta ad esaudire il sogno dei coloni: il ritorno a Gaza dopo l’eradicazione, avvenuta nel 2005 per volontà dell’allora premier Ariel Sharon. Con il beneplacito degli Stati Uniti di Donald Trump, la preoccupazione, espressa da Pechino e altre capitali del mondo (tra cui alcune europee) e il silenzio sconcertante dell’Unione Europea. Di fronte al piano che, nero su bianco, cancella ogni futura ipotesi di una soluzione dei ‘due Stati’ a cui l’Ue ha sempre detto di voler restare fermamente ancorata, l’Unione dei 27 tace. A distanza di ore dall’annuncio, al di là del generico invito a Israele a “riconsiderare i propri piani”, nessuna condanna, nessun comunicato, è stato ancora pubblicato da parte della presidente della Commissione, dall’Alto rappresentante della politica estera o da qualunque altro rappresentante delle istituzioni comunitarie. In queste ore drammatiche, che segnano una nuova tappa nella sofferenza della popolazione di Gaza, il silenzio della comunità internazionale e dell’Europa in primis, diventa a tutti gli effetti un atto di complicità.

Il commento di Ugo Tramballi, ISPI Senior Advisor

“Nella storia del conflitto Gaza è un punto fermo. Quando nasce lo stato ebraico nel 1948 la Cisgiordania né la Striscia diventano Palestina: la prima è annessa da re Abdullah di Transgiordania, la seconda presidiata ma non presa dall’Egitto che non se ne impossessa, capendone le criticità prima di Ben Gurion: così affollata di profughi, la Striscia era un pericoloso avamposto della causa palestinese. Nell’aprile 1956 Roi Rotenberg, un ragazzo di guardia al kibbutz di Nahal Oz, fu ucciso da un gruppo di guerriglieri gazawi. «Non scagliamoci contro i suoi assassini», disse Moshe Dayan nella sua orazione funebre. «Come possiamo contestare il loro odio per noi? Da otto anni vivono nei campi profughi di Gaza mentre davanti ai loro occhi noi costruiamo le nostre case sulle terre nelle quali vivevano loro e i loro antenati». Non è esattamente la stessa comprensione delle ragioni del nemico, biblicamente manifestate da Netanyahu e dal suo governo”.

[Fonte e Foto: ISPI]