Gaza: senza tregua

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Prosegue l’avanzata dei carri armati israeliani su Khan Younis, Stati Uniti nella bufera per il veto all’Onu. Ecco il punto dell'ISPI.

A oltre due mesi dall’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, la Striscia di Gaza “è un inferno sulla Terra”: non usa giri di parole Philippe Lazzarini, capo dell'agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa), per descrivere la situazione nell’enclave. Gli abitanti, senza scorte di cibo, né acqua, né carburante rischiano di morire di fame, mentre il collasso degli ospedali e il cedimento del sistema fognario stanno causando il diffondersi di malattie. In questi giorni l’offensiva israeliana è concentrata su Khan Younis – dove si nasconderebbe Yahya Sinwar, il leader di Hamas nella Striscia - ma i bombardamenti non concedono tregua e procedono a ritmo continuo in diverse zone dell’enclavedove ormai le vittime sarebbero oltre 18mila. “È finita, arrendetevi, non morite per lui”, ha detto il premier israeliano Benjamin Netanyahu rivolgendosi ai combattenti del gruppo, mentre il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha avvertito che “la situazione si sta rapidamente evolvendo verso una catastrofe” che potrebbe avere conseguenze irreversibili per i palestinesi e per l’intera regione. Nella vicina Cisgiordania, oggi, è stata una giornata di sciopero generale: negozi, scuole e uffici governativi sono rimasti chiusi per chiedere un cessate il fuoco, mentre dalla chiesa della Natività a Betlemme arriva la notizia che le celebrazioni per il Natale quest’anno saranno ridotte al minimo. “Non possiamo festeggiare quando i nostri fratelli e sorelle stanno morendo”, ha riferito al quotidiano britannico The Times Issa Thaljieh, il sacerdote greco-ortodosso della Chiesa della Natività, la basilica bizantina del IV secolo la cui cripta contiene il luogo dove, secondo la tradizione, nacque Cristo.

Un veto di troppo?

Il pesante bilancio delle vittime a Gaza ha aumentato la pressione su Washington, in quanto principale alleato e difensore di Israele sulla scena internazionale. Così venerdì gli Stati Uniti si sono trovati isolati quando hanno bloccato una risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco immediato tra Israele e Hamas. La risoluzione, presentata dagli Emirati Arabi Uniti e sostenuta da 97 Stati membri, ha ricevuto 13 voti favorevoli su 15 al Consiglio di Sicurezza - oltre alla Russia e alla Cina anche la Francia ha votato sì - ma si è arenata contro l’unico veto posto da Washington, mentre il Regno Unito si è astenuto. Il vice-ambasciatore degli Stati Uniti Robert A. Wood ha spiegato di aver votato contro “una risoluzione sbilanciata, lontana dalla realtà e che non farebbe avanzare l’ago della bilancia in alcun modo concreto”. Ma la scelta americana, seppur non inaspettata, ha scatenato un’ondata di indignazione: oltre a quelle espresse dalle principali associazioni umanitarie e da numerosi paesi arabi, critiche sono arrivate dal presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas, che ha accusato gli Stati Uniti di essere complici di “crimini di guerra” e dal rappresentante cinese presso le Nazioni Unite, Zhang Jun, che ha denunciato i “doppi standard” di Washington. Dal canto suo, il diplomatico russo all’Onu Dmitry Polyanskiy ha affermato che “sotto gli occhi del mondo i colleghi statunitensi hanno emesso una condanna a morte per migliaia se non decine di migliaia di civili in Palestina e Israele”.

Armi USA a Israele?

Ancora più complicato, dopo il veto all’Onu, giustificare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale la recente vendita di armi americane a Israele: confermando anticipazioni trapelate nei giorni scorsi sulla stampa, infatti, il dipartimento di Stato e il Pentagono hanno dichiarato che l’amministrazione del presidente Joe Biden ha disposto la vendita di 45mila munizioni per carri armati al governo di Tel Aviv. Un giro d’affari del valore complessivo di 500 milioni di dollari. Per farlo, senza incorrere in un voto dall’esito incerto al Congresso, però, la Casa Bianca avrebbe fatto ricorso all’Arms Export Control Act – una normativa speciale relativa alle emergenze per la sicurezza nazionale. Per il segretario di Stato Antony Blinken non c’è niente di inusuale: “La vendita – ha detto - risponde agli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. Ma citando funzionari anonimi, nei giorni scorsi, il Washington Post aveva rivelato che, nel caso di Israele, gli Stati Uniti non starebbero seguendo le direttive che lo stesso Biden aveva stabilito a febbraio, richiedendo che tutti i trasferimenti di armi a governi stranieri fossero soggetti a un esame rigoroso sui precedenti del destinatario riguardo il rispetto delle convenzioni di Ginevra e altri trattati a difesa delle popolazioni civili in tempo di guerra. La notizia ha sollevato più di un interrogativo e alimentato nuove critiche anche negli ambienti progressisti degli Stati Uniti, sui cui voti Biden potrebbe contare per vincere la rielezione il prossimo anno.

Europa, ultima chiamata?

Alla vigilia di un vertice del Consiglio europeo che si concentrerà principalmente sull'allargamento e sull’Ucraina, è affidato a quattro paesi membri - Spagna, Belgio, Irlanda e Malta – il tentativo di riportare il conflitto in Medio Oriente al centro dell’agenda europea. Data la portata della devastazione a Gaza, i leader dei quattro paesi hanno definito “imperativo per noi tenere un dibattito serio sulla guerra” al vertice. “Chiediamo alla leadership dell’Unione di guidare tale discussione, che dovrebbe mirare a concordare una posizione chiara e ferma da parte dei 27”, recita una lettera indirizzata a Charles Michel e riportata dal quotidiano Politico. Finora l’UE ha faticato a trovare posizioni comuni sul conflitto e all’ultimo incontro di ottobre i leader europei avevano raggiunto un’intesa, puramente linguistica, sulle “pause umanitarie” prima di dividersi votando in ordine sparso all’Assemblea Generale Onu. Oggi, arrivando al Consiglio Affari Esteri a Bruxelles, l’ultimo della presidenza spagnola, il ministro degli Esteri di Madrid José Manuel Albares ha affermato che la Spagna chiederà un “cessate il fuoco sostenibile”, che permetta alla cooperazione europea di raggiungere i civili palestinesi. Sul tavolo verrà poi depositata l’idea di una conferenza di pace internazionale: “Dobbiamo chiedere con urgenza a tutte le parti un cessate il fuoco umanitario duraturo che possa portare alla fine delle ostilità” hanno scritto i quattro leader. “È tempo che l’Unione europea agisca. È in gioco la nostra credibilità”.

Il commento. Di Mario Del Pero, ISPI e Sciences Po

“Non è la prima volta che gli Stati Uniti si trovano soli nel difendere Israele all’Onu. Anzi, dagli anni Settanta ad oggi, sono state proprio le risoluzioni sul conflitto israelo-palestinese al Consiglio di Sicurezza ad attrarre il maggior numero di veti statunitensi. L’ultimo, a fronte di 13 voti favorevoli e l’astensione britannica, evidenzia però il profondo isolamento degli Usa e la situazione quasi impossibile che si è determinata per l’amministrazione Biden. Incapace di contenere l’alleato israeliano; poco credibile come indispensabile mediatore nel rilancio di un processo negoziale che si fa ogni giorno più velleitario; e contestata sul piano interno da una percentuale sempre più alta di elettori democratici oggi critica come non mai nei confronti d’Israele”.

(Fonte: ISPI; Foto: Vatican News/Ahmed Zakot)