Gaza: tregua o occupazione totale?

Israele non ha ancora risposto alla proposta di tregua accettata da Hamas, mentre continuano i preparativi per la nuova offensiva ed è scontro con Francia e Australia sul riconoscimento della Palestina. Il punto di Francesco Petronella per l’ISPI.
Sono ore decisive per Israele e Gaza. Nella giornata di domenica, Hamas ha accettato una nuova proposta di tregua presentata dai mediatori di Egitto e Qatar. L’intesa ricalca a grandi linee lo schema degli accordi precedenti: cessate il fuoco di 60 giorni con Israele, restituzione di metà degli ostaggi ancora detenuti a Gaza, rilascio da parte di prigionieri palestinesi. Il governo di Benjamin Netanyahu non ha ancora fornito un responso, al netto di indiscrezioni non confermate su un imminente rifiuto. Israele, che fino a questo momento si è opposto a soluzioni che non prevedano il rilascio di tutti gli ostaggi vivi in un’unica soluzione, fornirà la sua risposta ai mediatori entro venerdì, ma intanto il ministro della Difesa Israel Katz ha approvato i piani delle Forze di difesa israeliane (IDF) per una nuova e definitiva operazione per occupare il cuore urbano della Striscia di Gaza (Gaza City). Le famiglie degli ostaggi e l’opposizione chiedono a gran voce che venga approvato un cessate il fuoco, temendo che l’operazione militare su vasta scala distrugga ogni speranza di riportare a casa i prigionieri rimasti. Domenica, in una manifestazione dai numeri senza precedenti, un milione di persone è sceso in piazza contro il governo, segno di una società israeliana spaccata ma in gran parte ancora convinta – secondo i sondaggi – che l’IDF stia facendo di tutto per evitare inutili sofferenze ai gazawi. Il tutto avviene mentre Netanyahu si scontra verbalmente con i leader di due paesi, Francia e Australia, pronti a riconoscere la Palestina il mese prossimo.
Nuovo rifiuto in vista?
Nella giornata di ieri un alto funzionario israeliano ha dichiarato che Tel Aviv pone ancora come condizione il rilascio di tutti i 50 ostaggi detenuti a Gaza, lasciando presagire l’imminente rifiuto della nuova proposta di cessate il fuoco già accettata da Hamas. Tuttavia, secondo due fonti del quotidiano Times of Israel, il governo sta ancora studiando la proposta di accordo, sebbene Netanyahu negli ultimi mesi abbia più volte rigettato l’ipotesi di un rilascio solo parziale degli ostaggi rimanenti. Secondo i dettagli riportati nel piano proposto, circa la metà degli ostaggi ancora in vita, nonché i corpi di quelli già morti, verrebbero consegnati in un accordo graduale in cambio di circa 150 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, alcuni dei quali stanno scontando l’ergastolo, durante un cessate il fuoco previsto di 60 giorni. I dettagli della nuova proposta di cessate il fuoco, sottolinea il Guardian, la avvicinano molto alle linee generali di un accordo inizialmente suggerito dall’inviato speciale americano, Steve Witkoff, che in un’intervista andata in onda ieri su Fox News ha dichiarato che anche Donald Trump vuole che “tutti gli ostaggi tornino” da Gaza e che la guerra “finisca immediatamente”. Il premier israeliano non ha risposto ufficialmente alla nuova proposta, anche se lunedì ha affermato: “Hamas è sotto una pressione immensa“, con un riferimento, neanche troppo velato, ai preparativi per l’offensiva su vasta scala verso Gaza City.
Pronti all’assalto?
Circa 60mila riservisti israeliani, stando ai piani dello Stato Maggiore approvati dal governo, saranno richiamati a partire da oggi in vista dell’annunciata offensiva contro Hamas a Gaza City. Non si tratterà però di una mobilitazione immediata, ma di un’operazione programmata in diverse ondate. La maggior parte – circa 40-50mila riservisti – avrebbero ricevuto l’ordine di presentarsi in servizio il 2 settembre. Un’altra ondata si dispiegherà tra novembre e dicembre, e una terza tra febbraio e marzo 2026. L’IDF, inoltre, ha inoltre dichiarato di voler estendere di altri 30-40 giorni il servizio per circa 20mila riservisti attualmente in servizio. Ciò porterebbe il numero totale di riservisti pronti per l’offensiva a circa 130mila. Martedì sera, inoltre, il governo ha approvato un aumento da 9 miliardi di dollari nel bilancio del 2025, di cui 473 milioni saranno destinati agli aiuti umanitari per Gaza. L’iniziativa, che deve comunque passare al vaglio della Knesset (il parlamento monocamerale israeliano), ha fatto infuriare alcuni membri del governo di Netanyahu, nonché esponenti dell’opposizione come il presidente di Yisrael Beytenu, Avigdor Liberman, che ha accusato il governo di “pagare le tasse a Hamas”.
Netanyahu sotto pressione?
Oltre alle tensioni sul fronte interno, dove si oscilla tra la possibile stipula di una tregua e l’ennesima iniziativa militare, il governo israeliano è impegnato in una nuova bagarre diplomatica in più direzioni. Netanyahu ha accusato il presidente francese Emmanuel Macron di alimentare “il fuoco antisemita” nel suo paese, dopo che l’Eliseo ha annunciato che riconoscerà Palestina all’Assemblea generale ONU in programma per settembre. Martedì, l’ufficio del presidente francese ha risposto prontamente a Netanyahu, definendo le sue accuse “abiette” ed “errate” e promettendo che “non rimarranno senza risposta”. Scontro anche con l’Australia, altro paese pronto a riconoscere la Palestina tra qualche settimana. Oggi il ministro degli Interni australiano Tony Burke ha risposto Netanyahu, dopo che quest’ultimo ha l’omologo australiano Anthony Albanese come un “politico debole che ha tradito Israele e abbandonato gli ebrei australiani“. “La forza non si misura in base a quante persone riesci a far saltare in aria o quanti bambini riesci a lasciare affamati”, ha detto Burke all’Australian Broadcasting Corporation (ABC). Albanese, per parte sua, ha dato una risposta più moderata rispetto a Burke, affermando di “non prendere sul personale” i commenti della controparte israeliana, in quello che sembra un tentativo di stemperare i toni della polemica.
Il commento di Caterina Roggero, ISPI Senior Associate Research Fellow
“Tutto ruota attorno agli ostaggi in questa lunga guerra nella Striscia di Gaza. Civili innocenti privati della libertà e ridotti alla fame, come decine di migliaia di palestinesi. Per Hamas, consegnarli tutti in una sola volta vorrebbe dire condannarsi alla fine totale. Per la gran parte della società israeliana, la loro liberazione è da sempre l’unico obiettivo dell’iniziativa militare contro l’organizzazione islamista palestinese. Per il governo di Netanyahu sono invece sacrificabili e il vero scopo dei bombardamenti e delle operazioni di terra dell’esercito è l’eliminazione fisica di qualsiasi minaccia proveniente dalla Striscia – da qui l’ampiamente annunciata ri-occupazione (e colonizzazione?) dell’enclave. La tregua negoziata dai paesi arabi e accettata in queste ore da Hamas, lascia ancora quel margine di trattativa per evitare la débâcle totale, ma per Bibi non è abbastanza e difficilmente l’accetterà. E dire che, nel cessate il fuoco di gennaio, era prevista la liberazione di tutti i sequestrati in cambio della completa evacuazione dell’IDF, lasciando poi un margine di manovra all’autogoverno palestinese. Tutto bloccato a marzo dalla ripresa unilaterale dei combattimenti da parte di Israele. C’è da chiedersi, in tutto ciò, se per i dirigenti politici delle due parti conti ancora l’interesse nazionale-collettivo o se invece prevalga ormai (se non da sempre) solo l’esigenza di sopravvivenza al potere della propria cricca”.
[Fonte: ISPI; Foto: Moked/Pagine Ebraiche]