Guerra a Gaza: stallo all'Onu
Nuovo rinvio del voto su Gaza al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Lo stallo fa infuriare le agenzie umanitarie e alimenta la sfiducia in un sistema internazionale che non ‘funziona’ più. Questo il punto dell'ISPI.
Slitta ancora, dopo i precedenti rinvii, il voto al Consiglio di Sicurezza dell’Onu sul cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Nonostante le rassicurazioni dell’ambasciatrice americana Linda Thomas Greenfield - secondo cui gli Stati Uniti sarebbero pronti a firmare la bozza di risoluzione - il voto è stato posticipato a questa sera, quando in Italia sarà notte fonda. Dal documento però, le pressioni americane avrebbero fatto cancellare il riferimento ad una “cessazione urgente e duratura delle ostilità” motivo per cui altri stati membri del Consiglio – tra cui la Russia - si sarebbero rifiutati di sottoscriverla. Al suo posto, secondo varie fonti di stampa, la risoluzione prevede “misure urgenti per consentire immediatamente un accesso umanitario sicuro e senza ostacoli e anche di creare le condizioni per una cessazione duratura delle ostilità”. E mentre al Palazzo di vetro prosegue il braccio di ferro lessicale, sull’enclave palestinese continuano i bombardamenti: secondo il ministero della Salute il bilancio dei morti a Gaza dal 7 ottobre ha superato quota 20mila vittime e 50mila feriti. Oramai, denuncia Medici senza frontiere, nella Striscia di Gaza “staying alive is only a matter of luck”, restare vivi è solo questione di fortuna. Secondo l’Unicef, oltre 7700 delle vittime registrate finora erano bambini. Il Fondo Onu per l’infanzia – con Oms e Unrwa - è tra le agenzie che ieri a Ginevra si sono dette “furiose” per lo stallo al Consiglio di Sicurezza. “Sono furioso che bambini che si stanno riprendendo da amputazioni in ospedale vengano uccisi in quegli ospedali – ha detto James Elder, portavoce Unicef – Furioso che Natale porterà una crescente ferocia mentre il mondo è distratto dall’amore per sé. Furioso con me stesso per non essere in grado di fare di più”.
L'Europa è imbelle?
La portata della distruzione e dell’enorme numero di morti nella Striscia comincia a imbarazzare le cancellerie europee che non riescono ad esprimersi con una voce sola sul conflitto in corso. Finora il più critico tra i leader del vecchio continente nei confronti dei bombardamenti israeliani è stato Emmanuel Macron che in un’intervista televisiva ha definito “inappropriata” la risposta di Israele all’attacco di Hamas dello scorso 7 ottobre. “Combattere il terrorismo non vuol dire radere al suolo la Striscia di Gaza o attaccare indiscriminatamente i civili”, ha detto il presidente francese. Pur riconoscendo “il diritto di Israele a difendersi e a combattere il terrorismo”, Macron ha chiesto la protezione dei civili e “una tregua che porti a un cessate il fuoco umanitario”. Il leader dell’Eliseo, tuttavia, è accusato dai suoi detrattori di non aver seguito una politica chiara sul diritto di autodifesa di Israele. Una critica respinta dai suoi alleati che affermano che la posizione del governo francese è stata coerente e si è sviluppata con lo svolgersi degli eventi. Secondo diversi osservatori, però, il suo sostegno apparentemente incondizionato a Israele dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre ha deluso i leader della regione, così come alcuni diplomatici francesi, abituati a vedere Parigi adottare una politica più indipendente da Washington nei confronti di Israele.
Usa: collisione o distrazione?
Ma è con l’amministrazione americana che la guerra sulla Striscia di Gaza potrebbe provocare al governo di Benjamin Netanyahu i maggiori problemi. Dopo aver sostenuto l’alleato mediorientale senza alcuna incertezza nelle prime fasi del conflitto, la Casa Bianca – complici le critiche internazionali, la preoccupazione crescente nella comunità arabo-americana e i distinguo espressi persino tra i funzionari del Dipartimento di Stato – sta manifestando maggiore impazienza nei confronti di Netanyahu. Se nelle prime settimane di guerra, dopo l’attacco del 7 ottobre, gli inviti alla ‘moderazione’ nei confronti di Israele erano stati più cauti, adesso l’impressione è che le richieste americane vengano formulate in maniera più esplicita. Un cambio nei toni che però non sembra aver portato finora conseguenze apprezzabili nella sostanza, e secondo il Washington Post la gestione del conflitto e soprattutto il futuro della Striscia “rischia di portare Joe Biden e Banjamin Netanyahu in rotta di collisione”. I disaccordi, tuttavia, non hanno scosso il sostegno di Washington alla guerra in corso e i difensori dei diritti dei palestinesi si chiedono se questa distanza esista – o se le parole di Biden siano semplicemente una ‘distrazione’ che mira a placare le critiche senza intraprendere azioni sostanziali. Al momento, infatti, gli Stati Uniti rimangono uno degli ultimi paesi al mondo a opporsi ad un cessate il fuoco duraturo.
Israele val bene una rielezione?
La verità probabilmente sta nel mezzo e se al momento non si profila una rottura vera e propria, mentre l’offensiva infuria e il bilancio delle vittime civili continua a crescere, a Washington cresce la frustrazione per la condotta di Israele. “Il presidente Biden si trova in una situazione senza via d'uscita – dice a Newsweek, il politologo Thomas Gift - È pressato da tutte le parti: dai gruppi filo-israeliani che si aspettano che la Casa Bianca dia al primo ministro Netanyahu il suo pieno sostegno, e dai sostenitori dei palestinesi che ritengono che la ritorsione delle IDF (le forze armate israeliane, ndr) sia sproporzionata e non sufficientemente mirata”. La questione sta spaccando anche i democratici al loro interno. Il senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha proposto di condizionare gli aiuti a Israele alla protezione dei civili palestinesi. “Se chiedere gentilmente avesse funzionato, non ci troveremmo nella posizione in cui ci troviamo oggi” ha osservato, aggiungendo che “la politica dell’assegno in bianco deve finire”. Il malcontento potrebbe avere ripercussioni negative anche in vista delle presidenziali del prossimo anno: per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, tra i giovani elettori e soprattutto tra gli studenti universitari – rivelano i sondaggi - cresce la diffidenza nei confronti di una Casa Bianca ritenuta troppo in sintonia con la leadership israeliana. E anche se questo non vuol dire che molti giovani elettori potrebbero votare per Trump, la loro delusione potrebbe costare cara al presidente se decidessero di non presentarsi ai seggi il giorno delle elezioni.
Il commento. Di Anshel Pfeffer, corrispondente ed editorialista di Haaretz e The Economist
“Quando Biden perderà la pazienza per le mistificazioni di Netanyahu, lo costringeranno ad accettare almeno alcune delle richieste americane. Netanyahu proverà a temporeggiare ancora, ma alla fine dovrà rassegnarsi e perdere la sua maggioranza. Questo comporterà quasi certamente nuove elezioni nel 2024 e in questo momento l’unica cosa che Netanyahu può fare è prepararsi alle elezioni. Lo sta già facendo, cercando di convincere gli alleati politici che gli sono rimasti e la sua base di sostenitori, sempre più esigua, che tutti i suoi rivali si sono venduti agli americani e che solo lui può impedire la creazione di uno Stato palestinese. Questa volta non sarà sufficiente. Presto non avrà più nessuno a cui mentire”.
(Fonte: ISPI; Foto: WHO/Un News - The United Nations)