Hamas accetta la proposta di cessate il fuoco, Rafah in bilico
Hamas dice di aver accettato la proposta di cessate-il-fuoco di Egitto e Qatar. Una notizia che arriva poche ore dopo l'ordine israeliano di evacuare Rafah est e permettere così l’invasione dell’ultima città della Striscia dove hanno trovato rifugio un milione e mezzo di persone. Questo il punto dell'ISPI.
L'ufficio politico di Hamas ha fatto sapere di aver accettato la proposta di cessate-il-fuoco di Egitto e Qatar. Tuttavia, Israele non l'avrebbe accettata poiché si trattava di una bozza "ammorbidita" dall'Egitto, per cui ci sarebbe stato un rilascio graduale di ostaggi, da 20 a 33, in cambio di un cessate-il-fuoco temporaneo e il rilascio di alcuni prigionieri palestinesi. Seguirebbe, quindi, quello che le fonti della CNN chiamano “il ripristino di una calma sostenibile”, durante la quale i rimanenti ostaggi verrebbero scambiati con altri prigionieri palestinesi. Mentre scriviamo, le informazioni sono frammentate e non del tutto confermate. La notizia arriva poche ore dopo l’ordine israeliano di evacuare Rafah, la città meridionale della Striscia di Gaza che dall’inizio dell’offensiva militare accoglie oltre un milione e mezzo di sfollati, ovvero più della metà di tutta la popolazione del territorio occupato palestinese. A più di 100mila persone è stato intimato – con volantini caduti dal cielo e comunicazioni radio e a mezzo social – di evacuare la parte orientale di Rafah, indicando la località costiera di Al-Mawasi come “zona umanitaria”. E mentre monta la paura tra gli sfollati – dall’inizio della guerra ad Hamas molte delle cosiddette “aree sicure” indicate da Israele non sono state risparmiate dai bombardamenti – sia l’UNRWA che altre organizzazioni per i diritti umani hanno paventato “uno scenario da incubo” per i civili palestinesi. In una situazione umanitaria collassata, sono quasi 35mila, per due terzi donne e bambini, le persone uccise dall’esercito israeliano in questi sette mesi di offensiva militare. L’invasione di Rafah era prevista da tempo, preannunciata dal governo di Benjamin Netanyahu come “indispensabile” per sradicare il governo di Hamas dalla Striscia di Gaza. Il premier israeliano aveva inoltre annunciato che l’esercito avrebbe continuato le sue operazioni “con o senza un accordo”, ma al momento non si sa se proseguirà con l’operazione pianificata. A livello diplomatico, l’invasione di Rafah sottoporrebbe a duro sforzo le relazioni con gli Stati Uniti, che avevano chiesto a Israele rassicurazioni sulla protezione dei civili e che da settimane sono interessati da uno dei più grandi movimenti di opinione pubblica degli ultimi cinquant’anni, con l’occupazione delle università da parte di studenti che chiedono di smettere di “finanziare il genocidio”.
Netanyahu tra pressioni interne ed esterne?
Già da una settimana Israele aveva informato l’amministrazione Biden dei piani di evacuazione dei civili palestinesi da Rafah. Un’informativa che però non avrebbe convinto gli alleati circa la sostenibilità umanitaria dell’operazione a Rafah, ritenuta l’ultima roccaforte di Hamas. “In assenza di un tale piano - che salvaguardi le vite dei civili, ndr - non possiamo sostenere un’operazione militare a Rafah perché il danno che provocherebbe sarebbe oltremodo inaccettabile”, ha detto il segretario di stato USA Antony Blinken venerdì scorso al Sedona Forum. Da mesi il presidente statunitense Joe Biden sta ammonendo l’alleato circa “l’errore” di un’operazione a Rafah, che avrebbe conseguenze umanitarie catastrofiche per i civili palestinesi e che potrebbe portare a cambiamenti nella politica estera che ha sin qui sostenuto Israele, il cui più recente aiuto militare è stato approvato due settimane fa e consta di 17 miliardi di dollari in armi. E mentre è difficile immaginare che un’operazione militare nella città meridionale della Striscia – la cui popolazione in virtù degli sfollati è aumentata di oltre il 500% – possa avvenire senza vittime civili, sul suo destino sembra giocarsi anche la tenuta politica interna di Israele. Il primo ministro Netanyahu ha subìto forti pressioni dal suo governo di estrema destra. In primis da parte del ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, esponente del radicalismo messianico israeliano, affinché l’esercito entri a Rafah il prima possibile. Gli ha fatto eco il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che sostiene una “emigrazione volontaria” dei palestinesi da Gaza e ha detto che un accordo di cessate-il-fuoco sarebbe “una sconfitta umiliante” e che un fallimento di Netanyahu nella guerra ad Hamas priverebbe il suo governo del diritto di esistere. Su posizioni più moderate, Benny Gantz, rivale del premier ma partecipante al governo di unità nazionale, sostiene che la liberazione degli ostaggi è prioritaria rispetto all’assalto di Rafah.
Un passo avanti?
Il destino di Rafah è quindi appeso a doppio filo al successo dei negoziati per un accordo, che Hamas avrebbe accettato. Domenica scorsa la delegazione di Hamas aveva lasciato la capitale egiziana dopo il rifiuto israeliano di accogliere un accordo che libererebbe tutti gli ostaggi in cambio della fine delle ostilità. La mediazione di Egitto e Qatar ha quindi portato quindi a una bozza che sarebbe stata accettata dal capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Per mesi, le due parti sono state agli antipodi sulle conditio sine qua non: mentre il gruppo palestinese chiedeva il ritiro dell’esercito israeliano dalla Striscia e la fine della guerra, Netanyahu ha sempre sostenuto che questa continuerebbe anche qualora venisse trovato un accordo sugli ostaggi. Per Tel Aviv, infatti, nessun accordo che preveda il mantenimento al potere di Hamas può essere considerato accettabile. Il capo della CIA William Burns era presente a Doha per incontrare il primo ministro qatarino e insistere affinché le parti continuassero a negoziare. Secondo l’esercito israeliano, gli ostaggi ancora nelle mani dei miliziani palestinesi sarebbero circa 130. Di questi, l’esercito israeliano sostiene che 35 siano morti.
Israele contro Al Jazeera?
Il governo israeliano ha votato all’unanimità la chiusura della redazione locale di Al-Jazeera, l’emittente qatarina che riporta gli avvenimenti da Israele e i territori occupati palestinesi. La decisione – arrivata due giorni dopo la giornata internazionale per la libertà di stampa – è stata definita dalla stessa Al Jazeera “un atto criminale che viola i diritti umani e il diritto fondamentale all’informazione”. Come riportato dal ministero della Comunicazione israeliano, l’attrezzatura di Al Jazeera degli uffici di Gerusalemme è stata confiscata, inoltre “le trasmissioni via cavo e via satellite sono state bloccate, così come l’accesso al sito internet.” Al momento, non è chiaro se la decisione sarà temporanea e se riguarderà tutti gli uffici o se solo quelli operativi in Israele e a Gerusalemme Est. Quello tra il governo israeliano e Al Jazeera è uno scontro che va avanti da tempo e che si è intensificato dallo scorso 7 ottobre: l’emittente è accusata di sostenere Hamas, mentre la sua redazione espone i crimini commessi dall’esercito israeliano dall’inizio dell’offensiva contro la Striscia di Gaza, dove è rimasta tra i pochi media che ancora riportano quanto succede da sette mesi a questa parte. Lo scorso dicembre, 22 membri della famiglia di Moamen Al Sharafi, corrispondente Al Jazeera da Gaza, sono stati uccisi da un raid israeliano.
Il commento di Mattia Serra, ISPI MENA Centre
“Sono bastati due giorni a cambiare radicalmente lo scenario. Se lo scorso sabato il raggiungimento della tregua sembrava a molti una questione di ore, le evacuazioni ordinate poco fa dall’esercito israeliano segnano di fatto l’inizio dell’offensiva a Rafah. Non è la prima volta che il racconto mediatico dei negoziati sembra discostarsi radicalmente dalla realtà. Come era già successo altre volte negli ultimi mesi, la vera partita si giocava su quell’ultimo miglio: la richiesta di un cessate il fuoco permanente, sollevata da Hamas ma prevedibilmente rigettata dal governo israeliano. Gli scenari che si aprono oggi sono terribili e fin ad ora le rimostranze internazionali sembrano esser servite a poco”.
[Questo articolo è stato pubblicato sul sito dell'ISPI, al quale rimandiamo; Photo Credits, ISPI]