Il giorno che cambiò Israele

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L’attacco di Hamas segna uno spartiacque nel conflitto israelo-palestinese, ma il fallimento prima ancora che della sicurezza è politico. Proponiamo l'approfondimento dell'Ispi, Istituto per gli studi di Politica internazionale.

Nel terzo giorno dall’inizio dell’attacco armato di Hamas, l’emergenza in Israele non è ancora rientrata, il territorio non è ancora stato del tutto bonificato dalla presenza di miliziani palestinesi armati e la conta delle vittime, civili e militari, e delle persone sequestrate è tuttora in aggiornamento. Ma mentre il paese cerca di riprendersi dallo shock di un’aggressione inimmaginabile, per portata ed efferatezza contro dei civili inermi, le domande si affollano: cos’è successo e come è stata possibile una così gigantesca débacle dell’intelligence, dell’esercito e di tutti gli apparati di sicurezza di uno dei paesi più militarizzati e sorvegliati al mondo? Dove sono stati portati gli ostaggi e cosa ne sarà di loro? Hamas ha avuto il sostegno dell’Iran e di altri nemici di Israele? Cosa succederà domani e dopo e quale sarà la risposta del premier Benjamin Netanyahu e del suo governo? Al momento il bilancio, raggelante, è di 800 morti e duemila feriti, e più di 100 ostaggi catturati e portati nella Striscia di Gaza. Mai visto nulla di simile in 75 anni. L’offensiva, via terra, mare e cielo lanciata dai miliziani islamisti, è un colpo al cuore al mito dell’inviolabilità dello Stato ebraico le cui conseguenze – anche psicologiche – si trascineranno per anni. E che segna uno spartiacque: nella storia del conflitto israelo-palestinese, ci sarà un prima e un dopo il 7 ottobre 2023.

Un attacco senza precedenti

Dopo l’attacco, iniziato all’alba di sabato mattina con salve di missili a lunga gittata, alcune delle quali sono arrivate quasi fino a Tel Aviv, un numero imprecisato di combattenti – nell’ordine del migliaio secondo le ultime informazioni – ha cominciato a riversarsi in territorio israeliano. Lungo la barriera di contenimento che delimita la Striscia si contano oltre 20 brecce. Gli aggressori le hanno valicate a bordo di pick-up e motociclette, seminando il panico nei villaggi e nelle case. Hanno fatto irruzione nel mezzo di un festival di musica elettronica dove centinaia di giovani stavano ballando e hanno aperto il fuoco. Altri hanno fatto irruzione a Sderot, una città di medie dimensioni, occupandone la stazione di polizia, mentre altri ancora hanno attaccato le basi militari di Reïm e Zikim. Ma, soprattutto, a decine hanno attraversato l’immenso posto di controllo di Erez, che con i suoi muri di cemento e le alte torri, è uno dei simboli dell’embargo israeliano sull’enclave palestinese, in corso dal 2007. Decine di civili sono stati uccisi mentre cercavano di fuggire o nascondersi, in sequenze simili a quelle dei videogiochi di guerra. Sono stati portati via anche alcuni cadaveri, mostrati come macabri trofei abbandonati e vilipesi nei video circolati in rete. Le milizie inoltre hanno preso dozzine di ostaggi – anziani, donne e persino bambini piccoli – dotandosi di un formidabile mezzo di pressione sul nemico.  

Embargo totale sulla Striscia

Dopo un primo momento di paralisi totale – sabato mattina le forze di difesa israeliane non hanno praticamente reagito per diverse ore – Israele ha bombardato la Striscia provocando oltre 500 morti e più di 2mila feriti. E questa mattina il premier Netanyahu ha annunciato un embargo totale sull’enclave di circa 360 chilometri quadrati, in cui vivono circa 2 milioni e 300mila palestinesi a cui “sarà sospesa la fornitura di elettricità, acqua e gas”. Quanto basta a provocare in poche ore una crisi umanitaria in una delle zone con la più alta densità abitativa al mondo. Ma la sensazione è che la risposta israeliana debba ancora arrivare. La domanda che molti si fanno in queste ore è fino a che punto il primo ministro si spingerà per schiacciare Hamas, liberare gli ostaggi e fugare ogni velleità da parte di altri nemici regionali che, dall’Iran al Libano, osservano con compiaciuto interesse mentre il primo esercito della regione si fa cogliere alla sprovvista. Diversi analisti prevedono che dopo aver dichiarato formalmente lo stato di guerra – Israele lancerà la sua prima offensiva terrestre su Gaza dal 2014. Il premier – che finora amava fregiarsi del soprannome di ‘Mr Sicurezza’ parla di una guerra “lunga e faticosa” e di ridurre in macerie i rifugi di Hamas. Ha ordinato ai palestinesi di “evacuare l’area”, ben sapendo che non c’è nessun posto dove i civili possano scappare o rifugiarsi per proteggersi dai bombardamenti. Parole di circostanza miste a un cinismo che non manca neanche ai vertici di Hamas, che ha sferrato l’attacco pur sapendo che alla fine sarebbero stati i civili a pagarne il prezzo.

Un disastro politico

L’attacco più mortale sul territorio israeliano dalla sua fondazione non è stato solo il frutto di un fallimento della sicurezza, ma della politica in generale. Meno di un anno fa l’inviato delle Nazioni Unite per il Medio Oriente diceva al Consiglio di Sicurezza che la situazione stava raggiungendo il punto di non ritorno e lo scorso anno è stato in assoluto il più sanguinoso mai registrato in Israele, Cisgiordania e Gerusalemme dalla fine della Seconda Intifada nel 2005. I raid delle forze di difesa israeliane sono aumentati vertiginosamente e quest’estate si è verificata la più grande operazione militare in Cisgiordania degli ultimi vent’anni. Nel progressivo disimpegno degli Stati Uniti dalla regione, i palestinesi hanno sopportato decenni di occupazione, la cancellazione di ogni possibilità di creare un futuro stato a causa del proliferare di insediamenti e la crescente violenza da parte dei coloni, il tutto in un clima di totale impunità. Il blocco imposto sulla Striscia di Gaza ne ha distrutto l’economia e lasciato metà della popolazione nella povertà assoluta, con il tacito consenso di una leadership palestinese agonizzante e – considerato che nei Territori palestinesi non si vota dal 2006 – priva di ogni residua legittimità. Il degno interlocutore di un premier – Benjamin Netanyahu –  che pur di tornare al centro della scena politica è sceso a patti con nazionalisti ed estremisti, a cui ha accordato posizioni in ruoli chiave, consegnando nelle loro mani le sorti del paese. 

Il commento, di Valeria Talbot, Head, ISPI MENA Centre

“Come sia potuto accadere tutto questo è un interrogativo che riecheggerà ancora a lungo dentro e fuori Israele, mentre nel paese sotto shock si sollevano le critiche nei confronti del primo ministro Netanyahu. Quello che oggi appare chiaro è lo sgretolamento dei presupposti su cui ha fatto leva la politica di marginalizzazione della questione palestinese condotta negli anni dal premier israeliano, dall’invincibilità del sistema di difesa missilistica Iron Dom alla convinzione che Hamas non si sarebbe avventurata in una guerra che potrebbe risultare distruttiva per la stessa organizzazione”.

(Fonte: ISPI; Foto: Vatican News)