Israele: anniversario dolente

Condividi l'articolo sui canali social

L’invasione di Rafah incombe sulla Striscia ma anche sul futuro di Israele, diviso in patria e sempre più isolato sul piano internazionale. Di seguito il punto dell'ISPI.

Israele ha compiuto ieri 76 anni e come ogni anno ha celebrato l’indipendenza in coincidenza con la ‘Nakba’ - la ‘catastrofe’ - che i palestinesi commemorano domani, ricordando quando, nel 1948, furono costretti a lasciare le proprie case. Solitamente le celebrazioni dei primi, contrastano con il lutto degli altri, ma stavolta è diverso. Questo è un anniversario cupo anche per Israele, che ricorre nel momento più difficile della sua storia. I festeggiamenti sono stati sottotono, gli spettacoli pirotecnici cancellati e la tradizionale cerimonia di accensione delle torce nel cimitero nazionale di Gerusalemme è stata registrata e trasmessa solo per il pubblico televisivo. Il paese è in guerra da ormai 220 giorni e se la maggioranza degli israeliani, sotto shock dopo l’attacco del 7 ottobre, approva la brutale risposta dell’esercito su Gaza, non si fida più dell’uomo che la guida: Benjamin Netanyahu. Due giorni fa migliaia di persone sono tornate in strada a Tel Aviv per protestare contro l’azione del primo ministro, esortando il governo a concludere un accordo che porti indietro i 132 ostaggi ancora nelle mani di Hamas, mentre riprendono con più vigore ogni sabato le manifestazioni per chiedere elezioni anticipate. Israele, nel mentre, è a un bivio. Se dovesse attaccare Rafah, la città della Striscia al confine con l’Egitto dove sono accampati oltre un milione e mezzo di sfollati palestinesi, sfiderebbe apertamente la volontà degli Stati Uniti e comprometterebbe ogni possibilità di accordo con le monarchie del Golfo, mettendo a rischio persino lo storico Trattato di pace con l’Egitto del 1979. Il paese – già oggi più solo che mai – imboccherebbe la via “dell’isolamento messianico” invocata dalla destra estrema e dai coloni da cui dipende l’orizzonte politico del premier, disposto a tutto pur di conservare il potere. Anche a ipotecare il futuro dello Stato ebraico.

Un quadro sconfortante?

Il panorama, sul campo, è desolante. In Cisgiordania, estremisti israeliani hanno assaltato e dato alle fiamme un convoglio di aiuti destinati alla Striscia dove, nel mentre, sono ripresi bombardamenti e scontri a fuoco nei pressi del campo profughi di Jabalia, a Zeitoun e in altre aree alla periferia di Gaza City. In queste zone – tutte nel nord dell’enclave, e che Israele ha dichiarato di aver conquistato nel novembre scorso – gli uomini di Hamas si sarebbero riorganizzati mostrando una capacità di resistenza che né le Idf né il governo israeliano si aspettavano. Ma nonostante l’obiettivo dichiarato di Netanyahu di “sradicare” il gruppo armato palestinese appaia sempre più irrealizzabile, almeno con i mezzi fin qui dispiegati, sull’enclave incombe la minaccia di un attacco su vasta scala a Rafah. Secondo la Cnn nelle ultime ore l’esercito avrebbe ammassato alla frontiera sud con la Striscia forze sufficienti a sferrare l’assalto. Ieri, proprio alla periferia di Rafah, un funzionario Onu è stato ucciso da colpi d’arma da fuoco mentre viaggiava a bordo di un veicolo delle Nazioni Unite tra Rafah e Khan Younis. L’uomo, un indiano di 51 anni, è il primo dipendente Onu straniero ucciso dall’inizio della guerra. Fonti palestinesi accusano i soldati israeliani e un’inchiesta è in corso sull’accaduto. In questo scenario i colloqui di pace al Cairo che la scorsa settimana avevano acceso qualche flebile speranza, restano lettera morta.

Un paese lacerato?

A fronte di una “vittoria totale” che non arriva mai, in Israele aumentano le divisioni. Da un lato ci sono Benjamin Netanyahu e un pezzo dell’opinione pubblica che ritengono che l’unico modo per garantire la liberazione degli ostaggi sia esercitare la massima pressione, a Rafah e altrove, e dall’altro i familiari dei rapiti e chi pensa che il governo dovrebbe firmare un accordo che li riporti a casa. Oggi è questo che la maggioranza degli israeliani vuole: secondo un sondaggio dell’Israeli Democracy Institute il 62% preferisce un accordo con ostaggi a un’operazione a Rafah, mentre solo il 32% dà priorità all’assalto sulla città palestinese. Sono percentuali che raccontano un cambiamento rispetto alle prime settimane di guerra e rispetto ai mesi scorsi. E a modificarle sono state soprattutto le azioni dei familiari delle vittime, che hanno avuto un ruolo decisivo nel convincere la maggioranza dell’opinione pubblica: “I loro sit-in e le loro marce sono diventate una sfida aperta al rifiuto del governo di considerare una possibile intesa” spiega Meron Rapoport, aggiungendo che “molti di loro si sono convinti che Netanyahu non voglia liberare gli ostaggi e porre fine alla guerra, perché questo significherebbe la fine del suo governo”.

Un futuro incerto?

I sondaggi riflettono una lacerazione. A ben guardare infatti, se la percentuale di chi ritiene preminente la liberazione degli ostaggi sale tra chi coloro che si definiscono “di sinistra” e “di centro”, tra gli esponenti di “destra” aumenta il numero di coloro che definiscono l’operazione militare su Rafah una priorità assoluta. È una divisione ideologica ancor più che strategica, e che precede l’attacco del 7 ottobre. “Israele gradualmente ma inesorabilmente si sta dividendo nello Stato di Israele – uno stato high-tech, laico, rivolto all’esterno, imperfetto ma liberale – e nel Regno di Giudea, una teocrazia ultranazionalista e suprematista ebraica con convinzioni messianiche, tendenze antidemocratiche che incoraggiano l’isolamento” osserva oggi in un lungo editoriale su Ha’aretz Alon Pinkas. Lo scenario internazionale è già cambiato: Stati Uniti Canada e Italia hanno annunciato la cessazione delle esportazioni di nuove armi. La Colombia ha tagliato i rapporti diplomatici con Tel Aviv e la Turchia ha annunciato la fine di ogni rapporto anche commerciale con lo stato ebraico. Sempre più spesso gli accademici israeliani vengono espulsi dai forum internazionali mentre il paese viene considerato come un paria, ed è oggetto di proteste nei campus universitari come all'Eurovision Song Contest. Israele è a un bivio: il rischio è che anziché una vittoria incassi una “sconfitta totale” e senza precedenti.

Il commento di Valeria Talbot, Head, Osservatorio Medio Oriente e Nord Africa ISPI

"Più si protrae il conflitto a Gaza più aumentano le difficoltà per il governo Netanyahu. Internamente, il primo ministro israeliano si trova a far fronte alle divisioni nel gabinetto di guerra, alle critiche delle opposizioni oltre che al crescente malcontento popolare per la gestione della questione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas. Sul piano diplomatico, invece, si allontana la prospettiva di una tregua mentre si acuiscono le tensioni con l’Egitto e si amplia la distanza con l’amministrazione Biden, per nulla intenzionata a sostenere l’alleato nell’operazione a Rafah e a fornire armi per azioni offensive. Tutto questo senza che ci sia una chiara strategia per il “giorno dopo”, che tuttavia appare ancora lontano".

[Questo articolo è stato pubblicato sul sito dell'ISPI, al quale rimandiamo; Photo Credits: ISPI]