Israele-Hamas: tamburi di guerra

Condividi l'articolo sui canali social

Israele prepara l’attacco sulla Striscia di Gaza, ma l’offensiva di terra da sola non porterà al disarmo ideologico di Hamas. Proponiamo l’analisi dell’Ispi, Istituto per gli studi di Politica internazionale.

Israele ha ordinato un “assedio totale” della Striscia di Gaza fino a nuovo ordine. La decisione segue la brutale aggressione sul suo territorio – un attacco senza precedenti durato oltre 50 ore – mentre il gruppo islamista palestinese Hamas ha minacciato di rispondere alla campagna di bombardamenti giustiziando i civili israeliani tenuti in ostaggio. Il ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha dichiarato che “né elettricità, né cibo, né acqua, né carburante” saranno più ammessi a Gaza, e che Israele è “in guerra contro degli animali, pertanto si comporterà di conseguenza”. Intanto gli aerei da guerra continuano a martellare, giorno e notte, l’enclave palestinese, il territorio con la più alta densità abitativa al mondo, la cui popolazione è composta per più della metà da bambini che hanno sempre vissuto sotto embargo. Ieri hanno colpito diverse moschee e un mercato nel campo profughi di Jabaliya, nel nord della Striscia, dove gli abitanti si erano precipitati a fare scorte di cibo in vista di una crisi che si preannuncia lunga. Se il bilancio dell’aggressione ai danni di Israele è di 900 morti, 2600 feriti e circa 150 ostaggi – tra cui anziani, donne e bambini – dall’inizio dei raid israeliani nella Striscia, almeno 700 palestinesi sono stati uccisi e più di 370 feriti. Il portavoce dell’ala militare di Hamas, Abu Obeida, ha fatto sapere che il gruppo “non è disposto a negoziare sotto le bombe” e che giustizierà un civile in ostaggio ogni volta che un attacco aereo colpisce gli abitanti di Gaza “nelle loro case senza preavviso”.

Verso un governo di unità

Per far fronte a quella che il premier Benjamin Netanyahu ha definito “una guerra lunga e faticosa” il governo israeliano ha mobilitato 300mila riservisti militari, un numero enorme per un paese di 9 milioni di abitanti. È il segnale – concordano diversi osservatori – che si stia preparando ad una grande invasione di terra nella Striscia di Gaza e alla possibile apertura di un altro fronte contro il gruppo sciita libanese Hezbollah nel nord. Per questo le unità militari a nord di Tel Aviv sono in massima allerta e le autorità hanno ordinato ai residenti di 28 città e villaggi vicino al confine con il Libano di recarsi nei rifugi antiaerei e in altri spazi protetti. Ai residenti è stato detto di portare cibo, acqua, materassi e coperte, segnalando che potrebbero aver bisogno di rimanere lì per un tempo prolungato. Intanto, Netanyahu ha invitato l’opposizione a “istituire immediatamente un governo nazionale di emergenza senza precondizioni” con l’obiettivo di “eliminare Hamas”. Al momento l’emergenza sembra aver prevalso sulle profonde divisioni che frammentano la scena politica israeliana. Ma l’unità di intenti rischia di infrangersi quando si aprirà la discussione sulle responsabilità per quello che in molti hanno bollato come il peggior fallimento degli apparati di sicurezza nella storia di Israele e che lascerà profonde cicatrici nel paese.

Il dilemma dei prigionieri

Almeno per ora però l’unità israeliana è destinata a durare: la crisi non è ancora finita e il destino degli ostaggi civili – tra cui donne e bambini – detenuti da Hamas all’interno della Striscia tormenta il paese e costituisce un vero e proprio dilemma per le autorità. Se in conseguenza dell’aggressione, infatti, molti in Israele invocano e si aspettano una forte risposta militare, il governo non può permettersi di abbandonare gli ostaggi ad un destino atroce come quello minacciato da Hamas in caso di bombardamenti a tappeto. Di contro, inviare truppe all’interno dell’enclave potrebbe rivelarsi una scelta azzardata, e il dedalo di vicoli all’interno del territorio potrebbe trasformarsi in una trappola mortale per l’esercito. Senza contare che le autorità non hanno alcuna visione che vada oltre l’uccisione dei leader di Hamas e nel lungo periodo è difficile credere che Israele possa ripristinare il proprio controllo su Gaza. Intanto, finora, secondo le Nazioni Unite, gli attacchi israeliani su Gaza hanno provocato lo sfollamento di 123mila abitanti e danneggiato le strutture idriche e igieniche, colpendo più di 400mila persone. Mentre l’unica centrale elettrica che fornisce elettricità al territorio – dicono le agenzie umanitarie – potrebbe rimanere senza carburante in pochi giorni.

Tamburi di guerra

Se anche, come alcune fonti sembrano suggerire, tentativi di mediazione sarebbero in corso da parte di alcuni paesi dell’area, come Egitto, Turchia e Qatar, nulla sembra ormai poter scongiurare il rischio di una guerra vera e propria tra Israele e la Striscia di Gaza. Sarebbe la quinta in meno di vent’anni e come le precedenti imporrebbe ad un territorio, tra i più densamente abitati al mondo, un altissimo prezzo di sangue. E sarebbe del tutto inutile ai fini del dichiarato obiettivo di “eliminare Hamas”: le passate offensive hanno mostrato i limiti della risposta militare portando, come unico risultato, alla distruzione delle sue capacità militari e all’eliminazione di alcuni dei suoi quadri e miliziani. Ma la mancanza di un approccio politico alternativo ne ha di fatto boicottato il risultato principale: il disarmo ideologico del movimento che è riuscito, di volta in volta, a rinascere dalle sue ceneri. In definitiva, se che la brutalità messa in scena da Hamas non favorirà in alcun modo le legittime istanze palestinesi, semmai è vero il contrario, la più lunga occupazione militare della storia moderna e l’assenza di ogni orizzonte politico, hanno trasformato i Territori in un vulcano pronto a eruttare. Con l’unica certezza, che lo status quo non è più in alcun modo sostenibile. Tra i paragoni storici inevitabilmente imperfetti che sono stati fatti per descrivere quello che il 7 ottobre ha rappresentato per Israele, quello con l’11 settembre è ritornato più volte. “Alla luce della reazione americana e degli errori commessi allora – osserva oggi Le Monde – l’unica speranza è che nell’interesse di entrambe le popolazioni coinvolte, la risposta israeliana non alimenti la perpetuazione del conflitto”.

Il commento, di Eleonora Ardemagni, ISPI Senior Associate Research Fellow

“È troppo presto per considerare chiusa la stagione degli Accordi di Abramo (con cui Emirati Arabi Uniti e Bahrein riconobbero Israele nel 2020), né tanto meno quella della normalizzazione diplomatica in corso fra Arabia Saudita e Israele. La guerra rallenterà questo processo, di natura storica, che è tuttavia destinato a continuare, almeno come dialogo informale poiché è il frutto di una ´tela strategica` più ampia, facilitata da un cambio generazionale fra le classi dirigenti arabe del Golfo”.

(Fonte: ISPI; Foto: Amnesty International)