Israele-Hamas: tregua senza pace
Una tregua di quattro giorni e il rilascio di 50 ostaggi, l’intesa tra Israele e Hamas posa su un equilibrio fragilissimo e Netanyahu avverte: non è la fine del conflitto. Leggiamo il punto dell'ISPI.
Quattro giorni di sospensione delle ostilità e liberazione di 50 ostaggi, tra donne e bambini. E ancora scarcerazione di 150 palestinesi, anche qui donne e bambini, detenuti nelle carceri israeliane: così, dopo 47 giorni di guerra, l’intesa mediata dal Qatar con il sostegno degli Stati Uniti ha portato alla prima tregua tra Israele e Hamas dal 7 ottobre scorso. Ad annunciare la svolta, anticipata da indiscrezioni e lunghe ore di attesa a Gaza come in Israele, è stato il ministero degli Esteri di Doha secondo cui la pausa “durerà quattro giorni e sarà soggetta a proroga”. La tregua dovrebbe entrare in vigore domattina alle 10.00 come pure domani, in mattinata, è prevista la prima liberazione degli ostaggi, il cui numero totale potrebbe aumentare in cambio di un prolungamento della pausa nelle operazioni militari israeliane. L’accordo prevede anche l’ingresso quotidiano a Gaza di centinaia di camion di aiuti che trasportano forniture umanitarie e mediche, nonché carburante. L’intesa, infine, prevede che nel nord di Gaza il traffico di aerei e droni da ricognizione sia sospeso per almeno sei ore al giorno, mentre nel sud la limitazione sarà in vigore per tutta la durata della tregua. Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha affermato che l’intesa è “il risultato di una diplomazia instancabile e di uno sforzo incessante in tutto il dipartimento e nel più ampio governo degli Stati Uniti”. Ma ha avvertito che “anche se segna una svolta significativa, non ci sarà pace finché Hamas continuerà a tenere ostaggi a Gaza”.
Tregua a orologeria?
Se le forze armate israeliane non danno conferme sulla tempistica, funzionari di Hamas parlando ad Al Jazeera hanno dichiarato che la tregua entrerà in vigore domani alle 10 ora locale. Secondo queste stesse fonti, la maggior parte degli ostaggi che saranno rilasciati sono donne e bambini ma non è chiaro se tra loro ci saranno persone con cittadinanza straniera o con il doppio passaporto. La proporzione concordata prevede la liberazione di 150 prigionieri palestinesi per ogni gruppo di 50 ostaggi israeliani rilasciati. Tra questi, nessun uomo adulto. Non è chiaro al momento se la pausa nelle ostilità interesserà anche il fronte nord al confine con il Libano. Esponenti di Hezbollah hanno detto ad Al Jazeera di non aver partecipato ai negoziati, ma che il movimento si sarebbe impegnato a cessare i combattimenti fintanto che lo farà anche Israele. Hezbollah smetterà di colpire il territorio israeliano dal sud del Libano “se le forze di occupazione israeliane aderiranno al cessate il fuoco” hanno osservato le fonti, aggiungendo che in caso contrario “Israele incontrerà la nostra risposta”. In attesa che l’accordo entri in vigore, un raid delle forze armate israeliane ha colpito un edificio residenziale nella città di Khan Younis, nella zona medizionale Striscia di Gaza, uccidendo 17 persone.
L'accordo divide la destra israeliana?
Il gabinetto di guerra israeliano ha approvato l’accordo dopo una riunione di quasi sette ore, durante la quale si sono levate forti le voci dell’ultradestra, rappresentata dal ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, contrario alla tregua e che ha definito “un disastro” l’intesa. Ma il premier Benjamin Netanyahu - grazie al recente allargamento dell'esecutivo al centrista Benny Gantz - ha trovato comunque i numeri necessari per far passare l'intesa a cui l’esecutivo israeliano si è in qualche modo visto costretto dopo le crescenti pressioni da parte delle famiglie degli ostaggi, che hanno apertamente accusato il governo di trattare i propri cari come una questione secondaria. In conferenza stampa Netanyahu ha assicurato che Israele “continuerà la sua guerra” contro Hamas dopo la fine della tregua “per restituire tutti i rapiti, eliminare Hamas e garantire che non ci siano ulteriori minacce allo Stato di Israele da Gaza”. Il premier, il ministro della Difesa Yoav Gallant e lo stesso Gantz sono stati autorizzati a decidere quando finirà il cessate il fuoco, purché non si estenda per più di dieci giorni.
Una svolta e non un epilogo?
Se l’accordo rappresenta la svolta politica più significativa dall’inizio del conflitto, non significa però che la guerra sia finita. Anzi, le ostilità potrebbero ricominciare con maggiore enfasi dopo che entrambe le parti avranno avuto il tempo di riorganizzarsi. Ma è speranza condivisa da molti che una pausa nei combattimenti incoraggi i mediatori e le parti interessate a lavorare per una cessazione permanente delle violenze. Nelle ultime settimane la pressione da parte degli Stati Uniti su Netanyahu e sul gabinetto di guerra israeliano è aumentata man mano che nell’opinione pubblica americana e tra i sostenitori del Partito Democratico cresceva l’inquietudine riguardo l’alto numero di vittime civili a Gaza. “Un accordo – osserva Simon Tisdall sulle colonne del Guardian - consentirebbe a Biden di disinnescare le critiche alla politica statunitense da parte dei paesi del sud del mondo e mitigare le divisioni con gli alleati europei”. Al tempo stesso l’intesa sottrae munizioni agli avversari statunitensi: ieri durante una riunione virtuale dei Brics, i leader dei paesi emergenti hanno ribadito la necessità di un cessate il fuoco immediato e condannato la sproporzione della risposta israeliana su Gaza. Intervenendo sulla questione, per la prima volta dall’inizio del conflitto, il presidente cinese Xi Jinping ha sottolineato “che il diritto all’esistenza della Palestina e quello al ritorno del popolo palestinese sono stati a lungo ignorati”. Nel medio periodo, il leader cinese ha evocato la necessità di una conferenza di pace internazionale per mettere fine alla guerra e ribadito – in un discorso ampiamente riportato dai media nel mondo arabo, che “non ci possono essere pace e sicurezza durature in Medio Oriente senza una giusta soluzione alla questione della Palestina”.
Il commento. Di Eleonora Ardemagni, ISPI Senior Associate Research Fellow
“Per mediare tra Hamas e Israele, il Qatar fa leva su una rete di relazioni politiche tra loro inconciliabili: Hamas e la sua leadership ´di casa` a Doha, l’Iran che arma e addestra il movimento armato palestinese, gli Stati Uniti. E poi c’è il rapporto con Israele. Seppur il Qatar non abbia relazioni diplomatiche ufficiali con Tel Aviv, l’emirato ha una consuetudine politica con Israele precedente alla stagione degli Accordi di Abramo: gli israeliani avevano un ufficio commerciale a Doha e hanno approvato per anni gli aiuti finanziari qatarini alla Striscia di Gaza. Ora che la guerra è in Medio Oriente, il Qatar sta mediando innanzitutto per contenere il conflitto (non soltanto per prestigio internazionale) perché, in caso di allargamento, anche le economie del Golfo ne sarebbero danneggiate. In questo esercizio di equilibrismo diplomatico, Doha sa però che la sfida più difficile è quella che inizierà quando tutti gli ostaggi saranno stati liberati: ovvero che fare dei rapporti con Hamas dopo lo spartiacque del 7 ottobre”.
(Fonte: ISPI; Foto: Flickr/United Nations Photo)