Israele-Hezbollah, scontro calcolato?
Dopo il peggiore scontro a fuoco degli ultimi mesi, Israele e Hezbollah moderano i toni e ostentano soddisfazione, ma il rischio di un’escalation è tutt’altro che scongiurato. Questo il punto di Alessia de Luca per l'ISPI.
Dopo giorni di attesa e proclami, l’attacco sferrato da Hezbollah nel nord di Israele non sembra aver innescato la temuta escalation tra lo Stato ebraico e il gruppo paramilitare libanese. Nella notte tra sabato e domenica il gruppo sciita ha lanciato 320 tra missili e droni contro il territorio israeliano in rappresaglia per l’assassinio di Fuad Shoukr numero due di Hezbollah ucciso a Beirut in un attacco mirato il 30 luglio scorso. In un discorso in diretta televisiva tramesso nella serata di ieri, il leader del partito di Dio, Hassan Nasrallah, ha dichiarato che “solo il tempo dirà se il principio di deterrenza è stato ripristinato” e che l’attacco è stato “un successo”. In realtà, come osserva oggi il NewYork Times “gran parte di Israele si è svegliata domenica mattina scoprendo che, almeno per il momento, l’attacco tanto temuto sembrava essere terminato prima ancora di iniziare”: la base di Glilot a nord di Tel Aviv, sede del Mossad e obiettivo dichiarato dell’azione militare non sarebbe stata colpita, né si registrano danni maggiori a edifici militari e civili. In compenso, le forze di difesa israeliane hanno lanciato un’ondata di raid aerei preventivi nel Libano meridionale, distruggendo migliaia di lanciarazzi e uccidendo tre miliziani del gruppo armato sostenuto dall’Iran. Lo scontro a fuoco, riferisce la stampa libanese, è stato il più massiccio dai tempi della guerra su vasta scala tra Israele e Libano del 2006.
Due resoconti opposti?
Appena poche ore dopo lo scontro, sia Israele che Hezbollah hanno fornito un resoconto diametralmente opposto della giornata, rivendicando ciascuno per parte sua una sorta di vittoria: Tel Aviv per i suoi raid preventivi contro quelli che l’esercito ha definito “migliaia di lanciarazzi” nel Libano meridionale, e Hezbollah per la successiva salva di missili e droni contro il nord dello Stato ebraico, in cui l'esercito israeliano ha dichiarato la morte di un ufficiale della marina. “Quello che è successo oggi non è la fine della storia – ha avvertito il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante una riunione del governo – [Lo sceicco Hassan] Nasrallah a Beirut e [l’ayatollah Ali] Khamenei a Teheran devono sapere che questo è un ulteriore passo avanti per cambiare la situazione nel nord”. Anche il ministro degli Esteri Israel Katz ha affermato di aver detto a decine di suoi omologhi in tutto il mondo che Israele “non cerca una guerra su vasta scala” ma che farà “tutto il necessario per proteggere i propri cittadini”. Proclami a parte però, osserva una fonte diplomatica occidentale citata da Le Monde “la conclusione di questo episodio è essenzialmente una: la conferma che nessuna delle parti desidera precipitare in una guerra totale o, per lo meno, assumersi la responsabilità di un suo scoppio”.
Rappresaglia calcolata?
L'intenso scambio di ostilità lungo il confine tra Israele e Libano di domenica mattina ha rappresentato l’ennesima minaccia di innesco per una guerra regionale, ma ancora una volta le parti si sono fermate sull’orlo del baratro. D’altronde, pur temendone le potenziali conseguenze, per il leader di Hezbollah un intervento militare in territorio israeliano era assolutamente inevitabile: se da un lato Hassan Nasrallah aveva bisogno di una vittoria da presentare alla sua base, sorpresa che la risposta contro l’assassinio di Fuad Shukr avesse tardato tanto ad arrivare, dall’altro era necessario rassicurare i libanesi che temono il potenziale distruttivo di una guerra aperta con Israele. Nel discorso televisivo trasmesso nel tardo pomeriggio di domenica, il leader di Hezbollah ha giustificato questo ritardo con la necessità di coordinare la sua risposta con l’Iran e i suoi alleati all’interno dell’asse di resistenza, cercando di “dare una possibilità” ai colloqui in corso su Gaza. Sul fronte negoziale, però, tutto sembra essere ancora in stallo e ieri le delegazioni israeliana e palestinese hanno lasciato il Cairo senza raggiungere un compromesso. Il movimento islamico ha ribadito ancora una volta le sue richieste per un cessate il fuoco permanente e un completo ritiro israeliano dall’enclave.
Rischio margine di errore?
Al pari di Hezbollah, anche Israele ha valide ragioni per non aprire un nuovo fronte di guerra con il Libano. Le Idf – secondo diversi osservatori – non sarebbero in grado di gestirlo mentre sono ancora impegnate con Hamas a Gaza e con la Cisgiordania trascinata sull'orlo di una nuova esplosione di violenza dall’estremismo dei coloni e dei loro sostenitori all’interno del governo. Gli alti comandi militari sono anche consapevoli che una guerra con Hezbollah non potrebbe essere vinta senza un’invasione di terra che avrebbe costi elevati in termini di vite israeliane. Ma il solo fatto che né Israele né Hezbollah la vogliano non basta a garantire che una guerra totale non accadrà. Finché le violenze si susseguono, il margine per gli errori di calcolo resta alto. È con questa consapevolezza che i colloqui proseguiranno questa settimana in Egitto e i briefing americani insistono, nonostante gli insuccessi recenti, che un accordo sia a portata di mano. Nonostante seri dubbi sul fatto che Benjamin Netanyahu o Yahya Sinwar vogliano davvero la fine dei combattimenti. “La guerra può scoppiare senza che entrambe le parti lo vogliano – osserva Julian Borger sul Guardian – ma non si può dire lo stesso della pace”.
Il commento di Mattia Serra, ISPI Mena Centre
"A giudicarli con 24 ore di distanza, gli eventi di ieri mattina sembrano quasi un’allucinazione collettiva, con il rischio di una guerra su larga scala apparentemente evitato e i quotidiani israeliani più impegnati a discutere gli infiniti scontri tra Netanyahu e i suoi ministri che la situazione al nord. Se è vero che quanto successo domenica lascia sia a Nasrallah che ai vertici israeliani abbastanza margine per dichiarare il proprio successo, è innegabile che nello scontro tra Israele e Hezbollah (e l’Iran) si continua a navigare a vista. Nell’aprile del 2023 erano bastate poche decine di razzi sparati da gruppi palestinesi nel sud del Libano a far temere per settimane che gli israeliani potessero optare per un’operazione su vasta scala. Cinquecento giorni (e migliaia di missili) dopo quell’operazione non c’è ancora stata, ma sia Israele che Hezbollah si muovono in un terreno nuovo, dove non esistono più linee rosse e si combatte una guerra psicologica".
[Questo articolo di Alessia de Luca è stato pubblicato sul sito dell'ISPI, al quale rimandiamo; Photo Credits: ISPI]