Israele, Iran e l’Europa alla finestra

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L’offensiva israeliana manda in frantumi la diplomazia nucleare e apre la strada a una pericolosa escalation in cui l’Europa ha tutto da perdere. Questo il focus di Alessia De Luca per l’ISPI.

Di fronte all’implosione del Medio Oriente sotto i colpi incrociati di Israele e Iran, l’Europa appare come uno spettatore impotente. Eppure, dalle conseguenze di un conflitto potenzialmente destabilizzante per l’intera regione negli anni a venire il Vecchio Continente ha poco o nulla da guadagnare e molto da temere, in termini di sicurezza interna e dei commerci e, ovviamente, di pressione migratoria alle frontiere. Ciononostante, gli europei sembrano paralizzati dai cambiamenti che si verificano intorno a loro e di fronte a un ordine internazionale basato su regole che sta rapidamente lasciando il posto a un sistema in cui vige la legge del più forte. Con una capriola inaspettata, dopo aver alzato i toni nei confronti di Israele e dei massacri perpetuati a Gaza, in una guerra senza fine e già costata la vita ad almeno 55mila persone, Francia, Regno Unito e Germania non hanno condannato l’offensiva ‘Leone nascente’ lanciata contro l’Iran. Un ribaltamento improvviso, tanto più che l’attacco – che ha brutalmente interrotto i negoziati sul nucleare in corso in Oman – è avvenuto in un contesto di crescente dissenso dell’opinione pubblica internazionale nei confronti di Israele e della crisi senza precedenti in cui versano gli oltre 2 milioni di abitanti di Gaza. Eppure uno dopo l’altro, i tre Stati europei che nel 2015 avevano firmato l’accordo sul nucleare iraniano (Jcpoa), strappato da Donald Trump tre anni dopo, hanno sostenuto il “diritto di Israele a difendersi” di fronte alla prospettiva che il regime di Teheran possedesse armi nucleari. Aprendo il fronte contro l’Iran il governo israeliano ha spostato l’attenzione internazionale da Gaza, imponendo un’altra guerra alle porte del continente, e ancora una volta l’Europa non potrà dire di aver fatto il possibile per evitarla.

Ancora un’occasione persa? 

Guidate da Parigi, Berlino e Londa la posizione delle capitali europee è paradossale, dato che sono state le prime a favorire una ripresa dei negoziati con Teheran. Soprattutto dopo la rielezione di Trump, i 27 avrebbero voluto evitare che Israele lanciasse un’offensiva contro il programma nucleare iraniano che sarebbe potuta facilmente sfuggire di mano. Ma allora perché allora questo cambio di passo? L’allineamento europeo con Israele dopo l’attacco all’Iran ha suscitato critiche da parte di alcuni analisti, che osservano come il sostegno a Tel Aviv rischi di minare ogni la credibilità dell’Europa come mediatore neutrale: “Capitali come Berlino e Parigi si sono schierate a sostegno di Israele, ignorando che si trattava di un’azione ingiustificata” osserva Hugh Lovatt, dello European Council on Foreign Relations (ECFR), secondo cui il timore è che l’Europa – un tempo riconosciuta di un attore di primo piano nel dossier iraniano – “abbia perso l’occasione di ricorrere alla diplomazia prima che l’escalation militare prendesse il sopravvento, relegandosi a un ruolo di mero osservatore della crisi. Immediatamente dopo l’attacco israeliano l’Iran aveva chiesto all’Europa una posizione più ferma. E in una telefonata con il suo omologo italiano Antonio Tajani, il Ministro degli Esteri Abbas Araqchi, aveva invitato l’Ue e la comunità internazionale in generale a condannare quello che Teheran ha definito un “attacco criminale”. 

L’Iran potrebbe accelerare la corsa all’arma nucleare? 

Il punto su cui convengono osservatori e analisti è che la decisone di Israele di colpire al cuore il regime iraniano alzi ulteriormente la posta in gioco. Teheran potrebbe decidere di colpire altri obiettivi in paesi vicini allargando il conflitto, o tentare di bloccare i commerci nel Golfo Persico chiudendo lo stretto di Hormuz. Ma soprattutto, gli attacchi potrebbero aver annientato ogni futura soluzione diplomatica alla questione nucleare, convincendo Teheran che la produzione di un’arma sia ormai l’unica garanzia contro le minacce di Israele, che da anni sarebbe in possesso di un proprio arsenale atomico non dichiarato. Secondo gli esperti militari, allo stato attuale e senza un intervento degli Stati Uniti e delle loro bombe di profondità, l’unica cosa che Israele può ottenere è quella di ritardare il programma nucleare iraniano ma non distruggerlo. Il pericolo, osserva Marion Messmer di Chatham House è che osservando la debolezza della sua deterrenza convenzionale esposta ai colpi dell’aviazione israeliana, “l’Iran abbia un forte incentivo a mettere a punto un’arma nucleare rudimentale il più rapidamente possibile, per impedire ulteriori danni alle sue strutture e dimostrare di essere in grado di difendere la propria sovranità”. In altre parole, lanciando l’offensiva ‘Leone nascente’ Israele potrebbe aver aperto un vaso di Pandora ormai difficile da richiudere e che la peggiore risposta iraniana si riveli anche la più probabile: quella di ritirarsi dal Trattato di non proliferazione (TNP) per perseguire quanto più rapidamente possibile un ordigno nucleare. 

L’Europa reagisca 

L’inazione dell’Europa è considerata tanto più grave perché ci sono possibilità che  un suo intervento impedisca il perpetuarsi di un conflitto su larga scala. Anziché ritirarsi dalla diplomazia, secondo diversi osservatori,i 27 dovrebbero impegnarsi a mantenere aperto un canale con Stati Uniti e Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo per favorire una de-escalation immediata, creando le condizioni per un rinnovato accordo sul nucleare. “Se tutti questi attori volessero impedire un’ulteriore escalation dovrebbero esercitare forti pressioni su Israele e Iran per raggiungere questo obiettivo, intensificando gli sforzi politici per impedire all’Iran di trasformare il suo programma nucleare in un’arma” fa notare Ellie Geranmayeh, di Ecfr.L’alternativa di un ‘cambio di regime’ a Teheran portata avanti dal Tel Aviv non solo non è praticabile a suon di bombe, ma se anche si realizzasse, come insegna la storia recente della regione ogni volta che un regime è stato abbattuto da potenze straniere, avrebbe costi umanitari, economici e sociali altissimi e ricadute imprevedibili sul lungo periodo. Appena un mese fa Donald Trump dichiarava a Riad che “per la prima volta in mille anni, il mondo guarderà a questa regione non come a un luogo di tumulti e conflitti, guerra e morte, ma come a una terra di opportunità e speranza”. Oggi al contrario, se Israele decidesse di riservare all’Iran degli ayatollah il ‘trattamento Libano’ utilizzato contro Hezbollah, con bombardamenti indiscriminati sulle città, si arriverà al “caos totale” mette in guardia Abbas Amanat, professore emerito di storia all’Università di Yale “e si creerebbe un deserto che persino Trump farebbe fatica a definire pace”. 

Il commento  di Ugo Tramballi, ISPI Senior advisor 

“Le forze armate israeliane hanno dichiarato “fronte di guerra primario” l’Iran. Gaza è stata declassata, “nella speranza di portare a casa gli ostaggi”. Che possa essere intesa come una buona notizia per loro e per i due milioni di palestinesi affamati nella gabbia della striscia, è opinabile. Una cattiva notizia certa è che l’obiettivo di Benjamin Netanyahu nel più importate dei suoi numerosi fronti di guerra, è il cambio di regime a Teheran. Nel consueto intervento televisivo urbi et orbi, in particolare rivolto agli iraniani, il premier israeliano è stato esplicito: ha invitato alla rivolta popolare contro il governo, offrendo il suo aiuto. Il regime khomeinista controllato dal clero e da una pericolosa casta militare, è fra i più detestati al mondo. È al potere da quasi mezzo secolo: l’assenza di slancio riformista e, al contrario, la crescente brutalità di chi non ha altro da offrire al suo popolo, sono evidenti. Ma è una buona idea pensare a un “regime change”? Un obiettivo del genere è destinato a prolungare, non accelerare la guerra, ad accrescere e non diminuire l’instabilità regionale”.

[Fonte: ISPI; Foto: Responsible Statecraft]