Medio Oriente: annus horribilis

A un anno esatto dall’attacco di Hamas, Israele è impegnato in una guerra su più fronti, la Striscia di Gaza è distrutta e il Medio Oriente rischia una guerra totale. Questo il punto di Alessia De Luca per l’ISPI.
Il 7 ottobre di un anno fa miliziani di Hamas attaccavano villaggi e kibbutz seminando il terrore nel sud di Israele e infliggendo allo Stato ebraico il più grave colpo e il peggiore trauma collettivo dalla sua fondazione nel 1948. Quasi 1200 persone, per lo più civili, furono assassinate a sangue freddo da uomini armati provenienti dalla Striscia di Gaza e piovuti dal cielo con i deltaplani o sfondando la barriera che circonda l’enclave con una facilità che avrebbe costituito, da sola, uno shock difficile da superare per gli israeliani. In quella singola, micidiale giornata di aggressione, gli invasori sarebbero anche riusciti a sequestrare 251 persone, tra cui anziani, donne e bambini, portandoli in ostaggio a Gaza. Di questi – a distanza di un anno – 117 sono stati rilasciati nell’ambito di una tregua, l’unica, che il governo di Israele e i vertici dell’organizzazione palestinese sono riusciti ad implementare tra novembre e dicembre 2023. Dei rimanenti, 37 sono morti e 97 si ritiene siano ancora nelle mani dei rapitori, ma non si sa in che condizioni. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che – in risposta all’eccidio – ha scatenato a Gaza una violentissima offensiva armata, prima con bombardamenti massicci e poi con un’invasione di terra, oggi viene accusato dai loro familiari di aver abbandonato i prigionieri alla loro sorte. Mentre a Gaza il numero di morti continua a crescere e il conflitto si allarga a Yemen, Libano e Iran, sembra lontanissima – oggi più che mai – qualunque possibilità di tregua che li riporti a casa.
Una violenza che si autoalimenta?
Fin dal giorno dell’attacco è stato chiaro che la reazione di Israele sarebbe stata senza precedenti. A nulla è valso l’accorato invito rivolto all’alleato dal presidente americano Joe Biden che – tracciando un parallelo tra l’11 Settembre 2001 e il 7 ottobre 2023 – aveva detto: “Non commettete i nostri stessi errori”. Netanyahu ha ignorato il consiglio, il primo di una lunga serie, rispondendo alla violenza di Hamas con la violenza militare, e attirandosi accuse di aver violato il diritto internazionale e quello umanitario. In questi 12 mesi innumerevoli tentativi di mediazione sono stati via via affossati con spregiudicato cinismo da parte dei vertici dell’organizzazione palestinese e da parte dei rappresentanti politici israeliani, la cui responsabilità è più grave considerato che Israele è una democrazia e la Striscia di Gaza no. A distanza di un anno nessuna inchiesta ha ancora fatto chiarezza su cosa non abbia funzionato il 7 ottobre sul fronte della sicurezza israeliana. Le responsabilità politiche di quello che è stato il più feroce smacco alla inviolabilità dello stato ebraico restano avvolte nelle nebbie di una guerra che il governo di Netanyahu ha portato avanti prima con l’obiettivo dichiarato di “distruggere Hamas” e poi con quello di “cambiare gli equilibri di potere nella regione”.
Israele è più sicuro o più isolato?
Nel corso dei mesi gli israeliani hanno visto l’iniziale ondata di solidarietà nei loro confronti trasformarsi gradualmente in aperta critica e condanna, man mano che diventava evidente il numero delle vittime e le sofferenze dei civili palestinesi a Gaza. Oggi la Striscia – già prima del conflitto uno dei territori con la più alta densità abitativa al mondo, è ridotta in macerie, e conta più di 41mila morti, secondo le cifre fornite dal Ministero della sanità controllato da Hamas, ma ritenuto credibile dalle organizzazioni internazionali e comunque mai smentite finora. Le malattie dilagano, la carestia è alle porte. Lo stesso scenario si sta ripetendo in Libano, con più di 2mila morti in due settimane, e un milione di persone – quasi un quarto della popolazione totale – costrette a lasciare le proprie case. Allo stesso tempo, la Cisgiordania ha sopportato uno degli anni più sanguinosi degli ultimi decenni sotto una raffica di incursioni militari e dei coloni, che hanno reso quella di un territorio palestinese autonomo un’idea più illusoria che mai. L’aviazione bombarda ‘l’asse della resistenza’, a Gaza come in Yemen e Siria, e la risposta all’Iran, dopo la salva di 180 missili balistici lanciata verso lo Stato ebraico il 1° ottobre, rischia di scatenare la guerra totale che la regione teme da tempo.
In cerca di un orizzonte politico?
È in questo contesto che oggi gli israeliani commemorano il primo anniversario del 7 ottobre, con il loro paese in guerra non solo a Gaza, ma su più fronti. Nessuno dei risultati reclamati da Netanyahu e perseguiti dai vertici delle forze armate israeliane è stato finora raggiunto. Lo stato ebraico non solo non è stato in grado di sradicare Hamas dalla striscia di Gaza ma rischia di ritrovarsi impantanato nuovamente nell’enclave palestinese e nel sud del Libano. Anche Hezbollah, infatti, nonostante le pesanti perdite subite, mantiene le sue posizioni combattendo sul proprio terreno, dove ha avuto quasi due decenni per prepararsi allo scontro. Tutto ciò solleva seri dubbi sul fatto che Israele abbia una strategia più chiara nell’ipotesi di un conflitto con l’Iran. A distanza di un anno dall’attacco di Hamas, Israele non è più sicuro ed è più isolato sul piano dell’opinione pubblica internazionale, sebbene ci siano state poche prese di posizione a livello di diplomazia ufficiale. Pochi giorni fa, a margine dell’Assemblea Generale dell’Onu, il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha messo gli Israeliani davanti a una scomoda verità. “Il primo ministro israeliano è venuto qui oggi e ha detto che Israele è circondato da coloro che vogliono distruggerlo” ha dichiarato in una vibrata conferenza stampa, aggiungendo che i paesi arabi, “sono disposti a garantire la sicurezza di Israele” se quest’ultimo pone fine all’occupazione e acconsente alla creazione di uno Stato. “Ma se non vogliono la soluzione dei due Stati – ha aggiunto Safadi – Potete chiedere ai funzionari israeliani qual è il loro obiettivo finale, a parte guerre e guerre e guerre?”.
Il commento di Ugo Tramballi, ISPI Senior Advisor
“Per gli israeliani il 7 Ottobre non ha a che vedere solo con la sicurezza nazionale. Oltre che collettiva, la ferità è individuale. L’attacco di Hamas è stato l’equivalente dell’11 Settembre americano: con un numero di vittime di gran lunga superiore, se proporzionate alla demografia dei due paesi. Per gli ebrei, la grande maggioranza dei quali, ormai, non ha vissuto la Shoah, il 7 Ottobre è diventato “l’Olocausto d’Israele”. Così profondo è l’effetto di quel giorno da aver bloccato anche la memoria della grande maggioranza degli israeliani. Esiste il 7 d’Ottobre: dall’8 di quel mese in poi, mese dopo mese fino ad arrivare al primo anniversario, gli israeliani e le comunità ebraiche della diaspora continuano a ricordare solo il terribile massacro di sabato 7 ottobre 2023. Non quello che Israele ha fatto dopo, sia per riaffermare una necessaria sicurezza nazionale che per pura vendetta”.
[Fonte e Foto: ISPI]