Medio Oriente: un anno di svolta

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Dallo scontro, diretto e indiretto, tra Tel Aviv e Teheran all’indebolimento della rete regionale iraniana: nel 2024 l’architettura del Medio Oriente è cambiata significativamente. Questo il focus di Francesco Petronella per l'ISPI.

Se il 2024 è stato un anno di grandi cambiamenti in tutto lo scenario internazionale, il Medio Oriente è certamente la regione in cui questi mutamenti sono stati più significativi. D’altra parte, se una svolta per quest’area era già stata segnata il 7 ottobre 2023, con l’attacco di Hamas a Israele, le conseguenze più ampie di questa svolta si sono in gran parte viste nel 2024. Dalla Striscia di Gaza, dove il bilancio delle vittime provocate dalle operazioni israeliane ha superato quota 45 mila, la guerra si è ampliata al Libano e, più o meno indirettamente, a SiriaIraqYemen e Iran. Fino a un anno fa, la regione vedeva contrapporsi due schemi strategici: da una parte il cosiddetto Asse della resistenza, l’insieme di movimenti, milizie e governi vicini alla Repubblica islamica dell’Iran; dall’altra il progetto sostenuto dagli USA di un fronte anti-iraniano, incentrato sulla normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni paesi arabi. Oggi, a più di un anno dagli eventi del 7 ottobre, l’architettura politica e della sicurezza mediorientale è profondamente cambiata.

Scontro diretto?

Uno dei maggiori cambiamenti a cui il Medio Oriente ha assistito nel 2024 è l’innalzamento del livello di scontro tra Israele e Iran. I due paesi si considerano reciprocamente avversari strategici, esistenziali, ma mai nella loro storia erano arrivati così vicini a uno scontro aperto e totale. Per tutto l’anno ci sono stati “scambi di fuoco” tra Israele e le forze filoiraniane nella regione, come Hezbollah in Libano, il movimento degli Houthi in Yemen e varie milizie pro-Teheran in Iraq e in Siria. Ma a questa guerra fantasma, combattuta cioè per vie indirette, si è affiancata anche la possibilità di una guerra aperta fra Tel Aviv e Teheran, con lanci reciproci e diretti di droni e missili in due occasioni: ad aprile e a ottobre. In entrambi i casi, la crisi era rientrata dopo attacchi e rappresaglie “simboliche”, ma si è trattato comunque di eventi inediti e impensabili fino a un anno fa.

Asse in crisi?

Israele ha potuto colpire direttamente la Repubblica islamica anche per un altro motivo. Un anno di guerra ha indebolito sensibilmente l’Asse della resistenza, creato negli anni da Teheran con l’idea di “esternalizzare” le proprie linee di difesa (dopo la sanguinosissima guerra con l’Iraq degli anni Ottanta) e creare un perimetro di deterrenza nei confronti dello Stato ebraico. Le operazioni israeliane in Libano contro Hezbollah e l’eliminazione di eminenti leader dell’Asse tra cui Hassan Nasrallah, ucciso a settembre a Beirut, Ismail Haniyeh, ucciso addirittura a Teheran, e Yahya Sinwar – considerato la “mente” dell’attacco di Hamas a Israele – avevano già messo in crisi il network regionale iraniano. Ma il colpo di grazia è arrivato poco più di tre settimane fa con il rovesciamento, tanto repentino quanto sorprendente, del regime di Bashar Al-Assad in Siria, storico cliente regionale di Teheran. La caduta del paese, finito oggi nell’orbita turca, spezza anche territorialmente la continuità di quello che, per anni, era stato considerato il corridoio che dall’Iran – tramite Iraq, Siria e Libano – conduceva al Mediterraneo orientale.

Un nuovo Medio Oriente?

Cosa aspettarsi per il 2025? Le analisi più pessimistiche ipotizzano che Teheran, venuta meno la deterrenza garantita dall’Asse, possa ora spingere l’acceleratore sul nucleare, anche se proprio in queste ore gli iraniani assicurano che non c’è stato alcun cambiamento nella dottrina nucleare della Repubblica Islamica. Dall’altra parte della barricata, la guerra innescata il 7 ottobre aveva bloccato i colloqui per la normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Israele nel quadro degli Accordi di Abramo, patrocinati dagli USA sotto la prima amministrazione di Donald Trump. L’adesione di Riad all’intesa doveva essere il culmine di un’iniziativa che aveva già coinvolto Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Sudan e Marocco. Quella diplomatica, però, è solo la cornice di un’operazione con cui gli americani intendono spingere i propri alleati del Golfo ad affidare la propria sicurezza a Israele e, allo stesso tempo, contenere l’Iran a livello regionale. Oggi – a più di un anno di distanza – nessuno dei paesi arabi, che a livello ufficiale sostengono i palestinesi, si defila ufficialmente dall’intesa, e neanche Riad esclude un suo futuro ingresso. Con il ritorno alla Casa Bianca di Trump, è probabile che Washington spinga verso una chiusura delle rimanenti ostilità – soprattutto a Gaza – per rilanciare la “cornice di Abramo” come base per l’architettura di un nuovo Medio Oriente.

Il commento di Lugi Toninelli, ISPI MENA Centre

“Un anno fa sarebbe stato impensabile immaginare che nel giro di 12 mesi Iran e Israele si sarebbero confrontati militarmente due volte, che Nasrallah sarebbe stato ucciso insieme a gran parte della leadership del Partito di Dio e che Assad avrebbe perso il controllo sulla Siria in pochi giorni. Questi ultimi due eventi infliggono un duro colpo anche alla deterrenza iraniana, drasticamente ridimensionata nel corso degli ultimi mesi. Cosa resterà del cosiddetto Asse della Resistenza, è difficile dirlo. Tuttavia, quanto accaduto nell’ultimo anno rappresenta una chiara sconfitta per Teheran che rischia di assistere passivamente al progressivo sgretolamento del suo controllo sul Levante e su buona parte del Medio Oriente. Sull’altro fronte, nemmeno gli Accordi di Abramo sembrano godere di ottima salute. Sebbene sopravvissuti alle tensioni regionali, a oggi resta poco dello slancio del triennio 2020-23. Inoltre nonostante da oltre un anno siano in corso discussioni sull’eventuale adesione dell’Arabia Saudita, nulla di concreto è stato a oggi raggiunto”.

[Fonte e Foto: ISPI]