Se il Grande Israele colpisce anche i cristiani

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Di Claudia De Martino, da Reset

In mezzo all’estate, mentre la “nuova offensiva” dei Carri di Gideon a Gaza imperversava ormai da due mesi (dal 18 maggio 2025), una notizia ha scosso le cancellerie occidentali: l’attacco dell’esercito israeliano all’unica chiesa cattolica di Gaza, la chiesa della Sacra Famiglia, avvenuto lo scorso 17 luglio. L’attacco causò “solo” tre morti, un numero estremamente ridotto in un territorio che ne registra ogni giorno tra i 40 e i 70, ma scioccò i governi europei che ritenevano, a torto, che i cristiani sarebbero stati risparmiati dalla carneficina in corso in virtù di una presunta immunità religiosa.

Le forze di difesa israeliane (Idf) si sono affrettate a dichiararlo un danno collaterale e a chiudere l’incidente, ma non sono riuscite a riconfortare né i pochi cristiani di Terra Santa né i loro correligionari oltremare. Contemporaneamente, infatti, in Cisgiordania, coloni ebrei attaccavano l’unico villaggio palestinese a maggioranza cristiana, Taybeh – con i suoi appena 1.500 abitanti tra greco-ortodossi, cattolici e melchiti – posizionato non molto lontano da Ramallah. Taybeh è incluso nei programmi dei pellegrinaggi cristiani essendo stato identificato con il villaggio chiamato “Efraim” nel Vangelo di Giovanni (11, 54) dove Gesù si sarebbe ritirato dopo la resurrezione di Lazzaro.

I coloni ebrei, provenienti dai quattro nuovi avamposti eretti intorno al villaggio nel 2024 (Ofra Sud-Est, la Fattoria di Amona/Mizpe Roim, Or Ahuvia/Maoz Ester B e Kochav ha-Shahar Ovest), avevano incendiato il 14 luglio la chiesa di San Giorgio e il cimitero limitrofo e sarebbero tornati il 28-29 luglio per terminare il lavoro, incendiando automobili e imbrattando graffiti razzisti sulle pareti delle case per intimidirne gli abitanti. Subito dopo tali eventi, il patriarca ortodosso di Gerusalemme Teofilo III e quello latino, Pierbattista Pizzaballa, avevano rilasciato una dichiarazione congiunta in cui denunciavano gli attacchi dei coloni come la principale minaccia alla sopravvivenza di una presenza cristiana nella regione, sottolineando la gravità dell’appoggio implicitamente fornito all’attacco dall’IDF, che non era intervenuta per porre fine alle aggressioni. In quest’occasione, Pizzaballa aveva direttamente indicato nelle violenze dei coloni la ragione dell’impennata dell’emigrazione cristiana dai Territori Palestinesi occupati, in cui oggi rimangono circa 50mila cristiani (in Israele sono 160mila).

Gli episodi di violenza nei confronti dei cristiani si sono moltiplicati a partire dal 7 ottobre 2023, ovvero dal lancio dell’offensiva a Gaza. Già il 19 ottobre 2023, l’Idf aveva bombardato con estrema violenza la chiesa greco-ortodossa di San Porfirio a Gaza, causando 18 morti e danneggiando irrimediabilmente la più antica chiesa della Striscia (del V secolo d.C.), nonché uno dei pochi luoghi di soccorso per decine di famiglie cristiane e musulmane, che vi ricevevano pasti e cure mediche. Le aggressioni a cristiani sono state poi periodiche. Una Ong americana basata a Gerusalemme (Rossing Center for Education and Dialogue) ha documentato, a un anno dall’inizio della guerra (2024), 111 casi di aggressioni contro cristiani da parte di ebrei. Tali violenze hanno preso la forma di aggressioni fisiche come sputi, spray al peperoncino e percosse, o atti di vandalismo nei confronti di proprietà delle varie confessioni cristiane, deturpazione di simboli religiosi e cimiteri, e blocchi nell’accesso ai luoghi di culto.

Tuttavia, i cristiani non sono affatto il primo target delle violenze dei coloni israeliani, che invece si riversano in maggioranza contro i musulmani, con conseguenze anche peggiori. L’Ocha (l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli affari umanitari) ha documentato più di mille attacchi da parte dei coloni israeliani in 230 comunità della Cisgiordania dall’inizio del 2025, che hanno portato alla morte di 11 e al ferimento di 700 palestinesi. In totale, dal 7 ottobre 2023 ad oggi, 775 palestinesi sono stati uccisi solo in Cisgiordania, con una netta impennata delle violenze.

A Gaza, oltre ai 65mila morti accertati dal ministero della Salute di Hamas e ormai nemmeno più contestati dalle autorità israeliane, Israele avrebbe deliberatamente distrutto centinaia di siti archeologici, culturali e religiosi, simbolo della furia militare con cui è stata attaccata la Striscia ma anche della volontà politica di estirpare la memoria storica del nemico. Secondo il Middle East Monitor, Israele avrebbe causato “danni intenzionali a otto musei, tra cui quelli di Rafah e Khan Younis, nel sud di Gaza, a decine di moschee, tra cui la Grande Moschea di Omar a Gaza city, a siti archeologici nella città di Gaza e a 21 centri culturali”.

Tra gli edifici contemporanei di valore storico spazzati via, vi sarebbe il Centro Culturale Rashad Shawa (dedicato a un vecchio sindaco di Gaza degli anni ’70), la cui architettura brutalista in cemento era diventata l’icona di Gaza e che avrebbe dovuto ospitare, all’indomani di un’eventuale riunificazione Hamas-ANP, il parlamento palestinese. La perdita maggiore è tuttavia rappresentata dalla distruzione della Grande Moschea di Omar, costruita sulle fondamenta di una chiesa bizantina, a sua volta eretta sul sito di un antico tempio filisteo e poi convertita in moschea nel XIII secolo dai Mamelucchi e ristrutturata nel XVI secolo dagli Ottomani: simbolo della stratificazione storica e culturale di Gaza fino al 2023. Uno storico israeliano, Dotan Halevy, specializzato sulla storia urbana di Gaza, sostiene che il danno più ingente è, però, quello invisibile apportato al patrimonio immateriale, ad esempio alle migliaia di manoscritti e volumi ospitati dalla biblioteca della moschea di Omar, che oggi non esiste più, e che erano in corso di digitalizzazione con il progetto “Endangered Archives Project” guidato dal British Council.  Alon Arad, direttore esecutivo dell’ONG israeliana Emek Shaveh, che combatte la “politicizzazione dell’archeologia” nel contesto del conflitto, ammette che “dal momento in cui Israele ha annunciato la distruzione del regime di Hamas, questa include gli edifici governativi e i simboli della cultura e del governo. Questi luoghi sono fondamentali per la costruzione di un’identità. Sono fonte di orgoglio personale e nazionale”.

Dal 7 ottobre scorso, l’Unesco ha verificato danni a 110 siti: quello a cui Arad e altri lasciano intendere, è che Israele stia procedendo ad un vero e proprio “culturicidio”, una delle più recenti varianti linguistiche inspirate al “genocidio” di Lemkin (1944), che descrive l’attacco mirato a sradicare a colpi di mortaio, missili e bulldozer l’intero patrimonio di un popolo. Altri accademici palestinesi, come Karma Nabulsi dell’Università di Oxford, avevano già utilizzato dal 2009 il termine “scolasticidio” per descrivere gli attacchi a scuole e università palestinesi, archivi del sapere collettivo.

È ancora Emek Shaveh ad ammettere che l’Idf “stia operando con criteri molto più permissivi (a Gaza). Vediamo la distruzione diffusa. I siti storici non fanno eccezione” sottolineando come questo ponga una sfida inesorabile alla futura ricostruzione e alla convivenza tra i due popoli nel lungo periodo, dato che “lo Stato palestinese sta perdendo risorse importanti, parte della sua identità e dell’economia locale basata sulla cultura e sul turismo”. Eppure, le voci ragionevoli d’Israele, che pure non mancano, sono completamente oscurate dal furore dei coloni e dei militari israeliani, i cui carri armati e missili sono impegnati a sradicare qualsiasi residuo di civiltà umana, cristiana o musulmana che sia, dalla Striscia.

Ma da dove viene questa presunzione monolitica di essere nel giusto e questa volontà fondamentalista di eliminare l’altro, percepito come un nemico assoluto, che si tratti di un civile palestinese a Gaza, presunto sostenitore di Hamas, o di un cristiano di Taybeh, percepito come un goy, e quindi uno straniero e un ostacolo all’annessione di tutta la terra? Entrambe le violenze, a Gaza e in Cisgiordania, contro i cristiani come contro i musulmani, hanno la stessa radice: l’avanzata dei fondamentalisti ebrei all’interno di Israele. Sebbene siano ancora una “minoranza” all’interno della società (i sionisti religiosi oscillano tra il 24 e il 28 per cento, a seconda dei sondaggi, si tratta di un’autodefinizione, dei 7.758mila ebrei israeliani (dati annuali 2025 dell’Ufficio centrale di statistica), essi sono riusciti a influenzare tutte le scelte strategiche dell’attuale governo Netanyahu e imporsi nel dibattito pubblico. La loro convinzione profonda è che le conquiste militari del popolo d’Israele dal 1967 in poi accelerino la redenzione (ge’ulah) della loro terra ancestrale dal mar Mediterraneo al fiume Giordano (il Grande Israele), prescritta nella profezia biblica del Levitico (25,23). Qualunque impedimento sulla sua via va rimosso, siano essi terroristi o stranieri, dato che la loro presenza è comunque un ostacolo al compimento dei piani di Dio.

Per quanto paradossali, le loro idee sono oggi al governo del Paese, anche se Israele si percepisce ancora come l’unica democrazia del Medio Oriente. La possibilità di avere un tale peso nelle decisioni strategiche dello Stato è stata offerta loro dal primo ministro e dal suo partito di maggioranza, il Likud, che ne condivide molte delle premesse. Già nel lontano 2010, infatti, Netanyahu, assegnando lo status di “patrimonio storico nazionale” a due siti religiosi ebraici presenti nei Territori occupati – la Tomba dei patriarchi a Hebron e quella di Rachele a Betlemme – sosteneva che l’esistenza d’Israele  “non dipende solo dalle Idf o dalla nostra resilienza economica, ma è radicata nel sentimento nazionale che trasmetteremo alle generazioni future e nella nostra capacità di giustificare il nostro legame con la terra”. Il legame tratteggiato in quel discorso era lo stesso che oggi i sionisti religiosi rivendicano a voce alta: quella terra appartiene solo agli ebrei.

Nel 2010 la penetrazione del fondamentalismo nel pensiero maggioritario ebraico appariva ancora marginale, mentre oggi è evidentemente dominante. In un articolo del 2020 sull’influenza del pensiero sionista religioso nei programmi delle scuole israeliane, due ricercatori concludono che attraverso un’analisi del “pacchetto di pianificazione, gestione e organizzazione” (MATANA) del Ministero dell’Istruzione, che ne delinea la politica generale, si evince che “il ministero promuove l’uso della religione per sostenere ideologie nazionaliste. Queste teorie, che collegano il popolo ebraico, la Terra di Israele e lo Stato ebraico, sono talvolta orientate verso un’ideologia più specifica associata alla destra religiosa del Grande Israele” (Maniv e Benziman, Israel Studies, 25/2, 2020).

Per molti di noi è ancora inconcepibile che uno Stato eretto sulla memoria del peggiore genocidio mai consumatosi nella storia, sia adesso impegnato a compierne un altro. Tuttavia, gli studi sul genocidio confermano che i Paesi che hanno vissuto un trauma collettivo non sono particolarmente esenti dalla possibilità di cadere nella stessa tentazione, a parti alterne. La Serbia fu l’autore di due “pulizie etniche” in Bosnia e Kosovo, accanendosi con virulenza sui propri “nemici” musulmani proprio nei luoghi in cui si erano svolte battaglie storiche, come quella di Gazimestan nel 1389, a seguito delle quali i Serbi erano caduti sotto il dominio ottomano: per secoli nella loro cultura nazionale venne alimentato il mito che Kosovo e Bosnia, sebbene esprimessero altre maggioranze etniche, fossero in realtà le regioni ancestrali della patria serba, ingiustamente cadute in possesso dei musulmani (M.R. Sells, The Bridge Betrayed: Religion and Genocide in Bosnia).

Per i sionisti religiosi, e per i sionisti revisionisti o la destra israeliana del Likud che strizza loro l’occhio, il ritorno del popolo ebraico nella propria terra è un evento profetico che testimonia la fedeltà di Dio e la sua elezione. L’incredibile possibilità della conquista di tutta la terra offerta dalla guerra a Gaza (e dalla benevola compiacenza dell’amministrazione statunitense e dei suoi alleati) rappresenta un’occasione storica unica che giustifica la violazione di ogni regola, di ogni accordo e di ogni valore umano, improntato alla ragione. Il “Grande Israele” è a un passo dal realizzarsi, non solo cancellando con sé 2mila anni di diaspora e umiliazioni, ma affermando un nuovo mito a esse contrarie: quello della potenza ebraica.

[Fonte: Reset; Foto: Archeologia Viva]