Siria: cade anche Hama

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I ribelli antiregime protagonisti di una fulminante offensiva entrano ad Hama e per la prima volta da anni la presa di Assad sembra vacillare. Questo il punto di Alessia De Luca per l'ISPI.

In un Medio Oriente già carico di guerre e violenze il riaccendersi del conflitto in Siria, congelato ma mai sopito, e la rapida avanzata dei ribelli jihadisti e filo-turchi sollevano interrogativi sul futuro di Damasco e sugli equilibri nella regione. Dopo la sorprendente conquista di Aleppo dei giorni scorsi, e nonostante una controffensiva lanciata dalle forze governative, le milizie antiregime guidate da Hayat Tahrir As-Sham (HTS) sono entrate a Hama, quarta città del paese. Il loro ingresso è stato preceduto da combattimenti particolarmente feroci e bombardamenti congiunti, russi e siriani, per prevenirne l’avanzata. Secondo l’agenzia di stampa statale Sana, nei giorni scorsi il presidente Bashar Al-Assad ha anche ordinato un aumento del 50% dello stipendio dei militari di carriera, nel tentativo di consolidarne la fedeltà in battaglia. Tutto inutile. Hama – tristemente nota per uno dei peggior massacri della storia moderna siriana, ad opera dell’allora presidente Hafez Al-Assad, padre dell’attuale capo di stato –  si trova in una posizione strategica ed è ritenuta fondamentale per salvaguardare la capitale e sede del potere, Damasco. La sua caduta è un altro segnale inequivocabile della debolezza del governo centrale che, come ricorda Charles Lister del Middle East Institute “dal 2011 al 2023 ha perso il controllo di due capoluoghi di provincia: Raqqa e Idlib” e ora in appena 8 giorni “ne ha appena persi altri due: Aleppo e Hama, rispettivamente la seconda e la quarta città più grande della Siria”. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, che ha sede a Londra ma dispone di una vasta rete d’informatori in Siria, in una settimana di combattimenti nel paese sono morte più di settecento persone.

Assad mai così debole?

Le formazioni ribelli protagoniste dell’offensiva in corso – un gruppo eterogeneo ed essenzialmente bicefalo, composto dagli jihadisti di HTS da un lato e da insorti filoturchi dell’Esercito nazionale siriano (SNA) dall’altro – sembrano molto meglio addestrate ed equipaggiate rispetto ai ribelli di dieci anni fa: secondo gli esperti, nella provincia di Idlib che ospita tra i 3 e i 4 milioni di persone, i ribelli producono droni in piccole officine situate in case, garage o magazzini riconvertiti, affidandosi alle stampanti 3D quando non riescono ad accedere ai pezzi di ricambio. Prima della loro offensiva, come sottolinea FT, hanno fatto ricorso a droni, sia per la sorveglianza che per il combattimento, e schierato unità di forze speciali. Sotto i colpi della loro avanzata, per la prima volta da oltre un decennio, il governo di Assad appare vulnerabile. I miliziani sono entrati a Hama mentre le truppe regolari si ritiravano, lasciandosi indietro carri armati, artiglieria e altri equipaggiamenti, che i ribelli hanno raccolto e che senza dubbio riutilizzeranno. Dopo Hama, il loro prossimo obiettivo sarà Homs, una cinquantina di chilometri più a sud, cruciale per il controllo della costa. Se anche questa cadesse, i ribelli saranno riusciti a interrompere il principale collegamento di Damasco alla roccaforte della setta alawita di Assad, rendendo estremamente difficile per il regime difendere e rifornire la capitale.

Un tempismo perfetto?

Da più parti si è sottolineato che il tempismo dell’offensiva ribelle e lo ‘scongelamento’ del conflitto siriano non siano casuali. La capacità dei principali sponsor del governo siriano di accorrere in aiuto di Damasco sono ridotte: dal 2022 – anno dell’invasione ucraina – la presenza militare russa in Siria si limitata a presidiare le basi navali nelle città costiere di Tartus e Latakia e a mantenere un distaccamento di aerei da guerra nella vicina base aerea di Khmeimim. Mentre l’Iran, oltre a vedere decimati i ranghi di Hezbollah in Libano dopo un anno di guerra contri Israele è sotto pressione nella Siria orientale, dove le milizie curde, con il supporto americano, contendono ai gruppi armati filoiraniani il controllo dei villaggi vicino a Deir ez-Zor. In un atteso discorso di questo pomeriggio, il nuovo leader di Hezbollah, Naim Qasssem, si è concentrato ampiamente su questioni interne – ricostruzione, aiuti alle famiglie le cui case sono state distrutte dai bombardamenti – senza però annunciare un impegno maggiore del movimento contro l’offensiva in Siria (di cui ha incolpato USA e Israele) Ma non è tutto. L’influente religioso sciita iracheno Muqtada al-Sadr ha esortato l’esercito iracheno e i gruppi di miliziani sciiti ad astenersi dall’impegno nel conflitto siriano. L’offensiva dei ribelli è stata lanciata lo stesso giorno in cui è entrato in vigore un vacillante cessate il fuoco tra Libano e Israele. Un conflitto da cui la Siria non può considerarsi estranea poiché il suo stesso territorio è al centro delle lotte di potere per i rifornimenti a Hezbollah. Tagliare questo canale per armi, rifornimenti e persone è fondamentale per Israele, altrettanto quanto difenderlo lo è per l’Iran.

Ankara ha saputo aspettare?

La spettacolare avanzata dei ribelli ha infatti riportato alla ribalta il ruolo della Turchia come principale sostenitore dei ribelli o almeno di una parte di essi. “Senza il via libera della Turchia, questa operazione non sarebbe mai stata possibile” osserva Gönül Tol, direttore del Middle East Institute di Washington secondo cui il presidente Recep Tayyep Erdogan ha colto l’opportunità di “cambiare le dinamiche sul campo, indebolire Assad e dimostrare alla prossima amministrazione statunitense di poter frenare efficacemente l’influenza iraniana”. Ma se è probabile che Ankara abbia sostenuto l’offensiva, l’obiettivo non è quello di un regime change a Damasco. Il presidente turco cerca invece un accordo con Assad per rimandare indietro milioni di rifugiati siriani e stabilire una zona cuscinetto che allontani le milizie curde YPG, che considera organizzazioni terroristiche, dal suo confine. Per anni Assad ha rifiutato ogni accordo in tal senso a meno di un ritiro completo delle truppe turche dal nord del paese e la fine della collaborazione turca con l’opposizione siriana. Ora, però, la sua posizione è molto più debole. Erdogan potrebbe sperare che questo gli permetta di dettare le regole e che Assad, nel tentativo di aggrapparsi al potere, non avrà altra scelta che accettarli.

Il commento di Francesco Petronella, ISPI  

“La caduta di Hama ha un enorme significato sia strategico che simbolico. La città dista meno di 50 chilometri da Homs, probabile prossimo obiettivo dei ribelli, la cui conquista andrebbe a tagliare i collegamenti tra Damasco e la costa siriana, zona in cui il regime ha più appoggi a livello popolare e sede delle due basi russe di Latakia e Tartus. Uno scenario simile sarebbe un vero incubo per Assad, che in poco più di una settimana ha perso la seconda e la quarta città del paese. Hama, teatro di alcune delle più imponenti manifestazioni anti-regime nel 2011, non era mai caduta nelle mani dei ribelli durante la guerra civile. La città è al centro della storia siriana anche per il massacro del 1982, quando Hafez Al-Assad, padre di Bashar, lanciò un attacco brutale contro la città per schiacciare nel sangue una rivolta guidata dai Fratelli Musulmani. La posizione del suo successore, al potere da quasi un quarto di secolo, non è mai stata così in bilico”.

[Fonte e Foto: ISPI]