Assemblea Onu, ultima chiamata

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L’Assemblea Generale si riunisce all’ombra di tre conflitti e in un mondo mai così frammentato. Per salvare il multilateralismo l’Onu deve cambiare nella forma e nella sostanza. Questo il punto di Alessia De Luca per l'ISPI.

La 79esima Assemblea delle Nazioni Unite in corso a New York riunisce al Palazzo di vetro un mondo che non è mai sembrato tanto frammentato. I conflitti in Medio Oriente, Ucraina e Sudan, le tensioni tra Cina e Stati Uniti e il divario tra Nord e Sud Globale stanno lacerando un multilateralismo già in affanno, sempre meno capace di ricomporre fratture e contraddizioni globali. Ieri, in un primo segnale di ottimismo, il consesso che riunisce 193 paesi ha adottato il “Patto per il futuro”, una dichiarazione in 56 punti che promette impegno sul clima e lo sviluppo sostenibile, il disarmo, la lotta alla povertà, i diritti umani e la governance digitale. “Siamo qui per salvare il multilateralismo dal baratro” ha detto il Segretario Generale Onu Antònio Guterres e per farlo, ha aggiunto, “servono azioni, non solo accordi”. Un guanto di sfida ai leader presenti, perché le loro non restino solo parole sulla carta. Il patto prevede, tra le altre cose, dare priorità al dialogo e ai negoziati, accelerare i cambiamenti nel sistema finanziario internazionale e la transizione dai combustibili fossili. E ancora ascoltare i giovani e includerli nei processi decisionali. Porre fine “alle guerre che stanno lacerando il nostro mondo” e, non da ultimo, riformare in senso più rappresentativo il Consiglio di Sicurezza, dominato da cinque paesi con diritto di veto (Stati Uniti, Cina, Russia, Francia e Regno Unito) e ormai in una situazione di stallo permanente.

L’Onu è diventata irrilevante?

L’irrilevanza degli organismi internazionali sulle crisi in atto non poteva rendersi più manifesta di quanto non abbia fatto nel corso della giornata di lunedì, quando – nelle stesse ore in cui le delegazioni arrivavano al Palazzo di vetro – Israele lanciava un massiccio bombardamento su varie zone del Libano. Il bilancio di quella che secondo gli storici è stata la giornata più sanguinosa dal conflitto tra Israele e Hezbollah del 2006 è stato di oltre 500 morti, tra cui 35 bambini e più di mille feriti. Diplomatici e funzionari internazionali riuniti a New York assistono impotenti mentre l’escalation minaccia di trasformarsi in una guerra in piena regola. Tra i conflitti in corso, quello in Medio Oriente è in assoluto il più controverso a livello internazionale e ha messo a dura prova l’intero sistema delle Nazioni Unite. Le indagini alla Corte internazionale di giustizia e i mandati di arresto spiccati nei confronti dei vertici israeliani dai giudici della Cpi all’Aja, salutati da alcuni governi come giusti provvedimenti a tutela del diritto internazionale, sono stati etichettati da israeliani e statunitensi come gesti di rappresaglia carichi di pregiudizi. Per non parlare dello scontro diretto tra Israele e la principale agenzia delle Nazioni Unite per i palestinesi (UNRWA) accusata di complicità in terrorismo, e l’accusa rivolta dal governo di Tel Aviv all’Onu tacciato di “antisemitismo”.

Una riforma urgente?

L’impasse dei principali organismi multilaterali non riguarda solo il Medio Oriente. La comunità internazionale incarnata nelle Nazioni Unite non è riuscita a mediare nel conflitto in Ucraina, a scongiurare la rovinosa deriva che ha portato alla guerra in Sudan, o ad alleviare le crisi del debito che affliggono i paesi in via di sviluppo e che sono all’origine di grandi ondate migratorie di persone in fuga dai conflitti, dalla fame o dai cambiamenti climatici. Questi fallimenti non rappresentano una coincidenza, denuncia Oxfam: “Una manciata di nazioni potenti che rappresentano solo il 25% della popolazione mondiale, ma detengono il suo pulsante nucleare, hanno troppo spesso manipolato il sistema globale di pace e sicurezza per soddisfare i loro interessi geopolitici ed economici”. Russia, Stati Uniti e Cina da soli – rende noto l’organizzazione – hanno posto la totalità dei veti al consiglio di Sicurezza nell’ultimo decennio. Molti di questi hanno ostacolato risoluzioni simili a quelle approvate a stragrande maggioranza dall’Assemblea generale. Inoltre, denuncia ancora il rapporto ‘Vetoing Humanity’ i 5 membri permanenti del Consiglio “hanno deliberatamente scelto con cura quali conflitti affrontare”. Col risultato che “nell’ultimo decennio, oltre il 95% delle risoluzioni approvate riguardava solo la metà delle crisi prolungate, lasciando l’altra metà perlopiù ignorata”.

Gli Usa alla sbarra?

L’attuale Assemblea sarà anche l’ultima in cui Joe Biden interverrà come presidente degli Stati Uniti. Sull’attuale contesto pesa non poco l’incognita della prossima corsa per la Casa Bianca, tra la sua vice Kamala Harris e lo sfidante repubblicano Donald Trump, che dell’attuale disordine internazionale è protagonista indiscusso. Biden sta anche lasciando l’incarico in un momento in cui i paesi del Sud Globale si sono fatti portatori delle istanze relative ai doppi standard dell’Occidente riguardo norme e scenari internazionali. In assenza di una svolta, il rischio è che l’impasse diventi permanente. Con ogni probabilità Biden sfrutterà l’occasione per rassicurare la platea globale sul fatto che gli Stati Uniti rimangono un partner affidabile e un leader globale e che l’Onu, pur tra mille difficoltà, continua ad essere un forum chiave per la risoluzione dei conflitti, di cui ha impedito derive persino peggiori. Sul secondo punto troverà il sostegno di molti. Sul primo dovrà affrontare il crescente scetticismo di una parte di mondo che accusa gli Stati Uniti di difendere un ordine basato su regole che troppo spesso valgono solo per alcuni.

Il commento  di Stefano Stefanini, ISPI Senior Advisor 

“Il multilateralismo è morto? No, ma illustra plasticamente gli strettissimi margini in cui può operare in un clima internazionale che è tornato ad essere dominato dalla competizione, e dallo scontro aperto, fra grandi e medie potenze. L’ONU non può funzionare come camera di compensazione geopolitica senza la volontà dei principali, e non solo, attori di trovare un compromesso alle loro divergenze. Questo è evidente nell’uso del veto da parte dei P5, ma non bisogna confondere la causa con l’effetto. La causa è il dissenso internazionale, il veto è la conseguenza”.

[Fonte e Foto: ISPI]