Tra i gazawi rifugiati in Cisgiordania, “noi amiamo la vita, con la speranza e con la pace. Vogliamo vivere!”

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E’ una realtà poco conosciuta quella delle migliaia di palestinesi di Gaza rifugiati da due anni in Cisgiordania. Alcuni di loro vivono accampati, pressoché intrappolati, negli spogliatoi e sotto la gradinata dello stadio di Nablus. La loro è una nostalgia implacabile della terra d’origine, dove vorrebbero tornare nonostante la guerra e le ulteriori minacce dell’occupazione israeliana. Li hanno incontrati i giovani italiani che domani concludono un pellegrinaggio di due settimane nella West Bank guidato da due gesuiti, Francesco Cavallini e Giacomo Andreetta, nell’ambito del progetto in Terrasanta “Artigiani della Pace” promosso dall’associazione AMO-Percorsi di vita. Un’esperienza, quella di queste due settimane, che resterà nelle loro vite, per le tante situazioni, di grande sofferenza, laceranti, ma anche di forte senso di comunità, che hanno potuto conoscere e toccare con mano, oltre che a Nablus, nelle campagne di Betlemme, a Jenin e a Taybeh. Per approdare poi a Gerusalemme, dove hanno incontrato anche il patriarca Pizzaballa. Le raccontano a Tra Cielo e Terra ancora con grande partecipazione ed emozione.

Di Antonella Palermo

Samir ha trent’anni. È di Gaza. Il 7 ottobre di due anni fa si trovava a Nablus per lavoro. Faceva parte di quelle 24 mila persone che cercavano di portare a casa un po’ di soldi lavorando fuori dalla Striscia. Con il ritiro del permesso di lavoro, dopo la strage compiuta da Hamas, si è ritrovato intrappolato in una terra doppiamente non sua. Non avendo altro alloggio dove poter abitare, ha trovato riparo nello stadio di calcio. Ci vive accampato da allora, insieme ad altri quaranta uomini che all’inizio erano il doppio. A Gaza ha lasciato una figlia di sei mesi, la moglie e altri due bambini che vivono in una tenda con i suoceri e altre persone. La casa è stata completamente distrutta per i bombardamenti israeliani. Si vedono in video-chiamata dai cellulari; ultimamente Samir non riesce a riconoscere il figlio: è dimagrito troppo per via della malnutrizione. Samir faceva il fabbro ma adesso non può più e quindi niente sostegno economico alla famiglia.

Della situazione tragica in cui si trova parla con alcuni giovani italiani che domani, 29 agosto, concluderanno un pellegrinaggio di due settimane in Cisgiordania guidato da due gesuiti, Francesco Cavallini e Giacomo Andreetta, nell’ambito del progetto in Terrasanta “Artigiani della Pace” promosso dall’associazione AMO-Percorsi di vita. Vi hanno partecipato 25 persone, divise in quattro gruppi, ciascuno dei quali invitato a trascorrere una dozzina di giorni in una realtà diversa ma ugualmente attraversata da una tensione alle stelle e una preoccupazione fortissima: Taybeh, Jenin e Zababdeh, Betlemme, Nablus. Qui – dove l’altra notte i soldati israeliani hanno fatto irruzione con mezzi blindati nella città vecchia, che conta 30 mila abitanti, conducendo un’operazione militare di oltre dieci ore che ha causato almeno un’ottantina di feriti palestinesi – l’insicurezza e la precarietà sono lampanti.

Lo sa bene questo manipolo di gazawi, tra i 20 e i 70 anni, accampati negli spogliatoi e sotto la gradinata dello stadio. Le loro case rase al suolo, frutto di anni di sacrificio. Lo sa bene Samir che racconta dello strazio provato ogni volta in cui riesce a intravedere il figlio sullo schermo del cellulare: il bambino fa capolino dalla tenda e lo chiama insistentemente, chiama il ‘papà’ insistentemente. La Gaza di Samir è un ricordo: prima con la famiglia viveva nella zona più sviluppata che però nel 2014 è stata completamente distrutta. Coltivavano la terra ma ora non esiste più nulla. Ancora più lacerante sapere, a distanza, che non c’è latte né acqua da bere, né cibo. Che gli ospedali non funzionano, sono sbrindellati. Che un neurochirurgo è svenuto mentre operava un ragazzo. Perché non si dorme più. Nessuno dorme più. Alcuni amici di Samir hanno provato a presentare la richiesta di visto al Consolato spagnolo in modo che lui possa chiedere asilo in Spagna. Chi può, infatti, cerca di andare via.

Ibrahim, una laurea in ingegneria informatica, è uno dei pochi che continuano a lavorare nel campo tecnologico. Il lavoro lo tiene molto occupato e forse questo lo distrae dall’orrore che si sta consumando nella sua Gaza. La casa là non c’è più. Nemmeno quella dove viveva sua sorella, saltata in aria per un attacco israeliano che ha ucciso lei, il marito e i figli. Un sangue che, tuttavia, in Ibrahim innesca ancora di più il desiderio di tornarci nella Striscia. Non la può abbandonare. Sembra paradossale, ormai è un covo di morte: all’apice degli ordini di evacuazione per gente che non sa dove andare, lui invece vuole tornarci, dice di non poterla dimenticare. Confida ancora in un’attesa, che tutto finisca.

Perché, in queste vite dilaniate, perennemente sulla soglia, c’è tanta voglia di vivere, di ricominciare, di ricreare un nucleo di affetti familiari. “È stato commovente vedere questa tenacia. Sono profondamente toccato, avremmo voluto restare con loro, su quella parete dello stadio mentre c’era l’incursione israeliana, assicurare la nostra vicinanza, semplicemente, mentre erano sotto attacco proprio poche ore dopo la nostra partenza per Gerusalemme”, racconta padre Cavallini. Eppure, nonostante tutto questo dolore e queste privazioni, il messaggio che loro danno a noi, riferisce una delle pellegrine, è: “Vogliamo vivere, amiamo la vita, con la speranza e con la pace. Noi amiamo la vita”.

“Il nostro servizio è contribuire a portare gioia e speranza – prosegue Cavallini – ma c’è grandissima sofferenza, è dura. Con il gruppetto di Nablus abbiamo visitato il campo profughi di Askar, uno dei tre campi della città, nato nel 1948. Sono molto preoccupati per quello che è successo a Jenin e Tulkarem [con i gravissimi raid militari israeliani a Jenin nel 2023 e quest’anno a Tulkarem, ndr] e si aspettano che a settembre entrerà l’esercito e sfollerà il campo che ora ha 22 mila abitanti. Ogni famiglia ha un morto o un ferito per mano israeliana. La vita nel campo profughi è veramente molto, molto difficile”. La missione “Artigiani della Pace” è in contatto qui con la Human Supporters Association che lavora servendo la comunità locale con particolare attenzione ai bambini, ai giovani e alle donne più svantaggiate ed emarginate: in campi profughi, villaggi remoti e nella città vecchia di Nablus.

L’obiettivo principale del programma psico-sociale è migliorare le condizioni di vita dei bambini attraverso l’istruzione, la riabilitazione, il networking. Proprio con i loro animatori i pellegrini italiani hanno speso tanto tempo. “È stata un’esperienza viva, viva, viva. Iniziavamo la mattina presto, siamo andati a dormire sempre tardissimo per fare la rilettura sapienziale della giornata e per condividere le risonanze. Un’esperienza di una ricchezza che non si può immaginare. Anni di forte pesantezza gravano su di loro. Noi eravamo lì, è stato bellissimo e arricchente essere in mezzo a gente di un’altra religione, a Nablus sono tutti musulmani, ma ci sentivamo tutti fratelli, uniti per il bene. Solo questo contava. Tanta bellezza, bontà, generosità, impegno”, sottolinea il gesuita bergamasco.

“Gli sfollati di Nablus si sono sentiti amati e noi accolti. È stata un’esperienza d’amore grande: si mangiava in dieci sulla strada, intorno allo stesso vassoio. Abbiamo messo in moto l’amore. Pensavamo noi di portare spensieratezza e forza e così è stato. Ma la forza l’abbiamo ricevuta da loro. Ascoltare tante storie di tenacia, resilienza, coraggio – fa notare Cavallini – è stato per noi fonte di vita ulteriore, proprio in mezzo a tanto dolore. Un dinamismo che spesso, dobbiamo dirlo, non vediamo nei ragazzi a casa nostra. Abbiamo ricevuto testimonianze tostissime e molto stimolanti per noi”. Uno stile di autentica comunità hanno vissuto i pellegrini: “Bisogna riconoscere che non ci siamo più abituati a questo stile nelle nostre città”.

Con lo stesso spirito hanno vissuto il pellegrinaggio i giovani inviati nella Tenda delle Nazioni, nelle campagne di Betlemme, oasi di non-violenza fondata nel 2000 dalla famiglia Nassar. La colonizzazione israeliana è di molto avanzata, commenta impressionata Alessandra che c’era stata otto anni fa. Ci si porta a casa “la caratura morale dei volontari”, la concretezza che spoglia da tutte le sovrastrutture personali, dice Valerio. “Gaza da qui ha un suono…”, azzarda Alessandro, così vicino a quella devastazione che arriva dai social quando riesce a essere documentata dai reporters palestinesi superstiti. Giornate spese a giocare con i ragazzi, le famiglie, a scuola, a tessere relazioni che rianimano. È accaduto al gruppo che ha sostato nella parrocchia di Jenin e nel piccolo villaggio di Zababdeh, che risale al III secolo (qui abitano 5 mila persone, di cui 3 mila cristiani).

Il gruppo giovanile locale Salt of the Earth, così come l’attività artistica del Freedom Theatre è qui una via di resistenza pacifica in mezzo alla mancanza di prospettive, un modo per convogliare le tensioni in creatività. “Un ragazzo mi ha detto che perdonare non è dimenticare – racconta Alberto -, una riflessione che mi porto dentro. Ognuno ha voglia di dirti qualcosa, sia una tragedia personale sia la gioia dell’incontro”. Si tratta, una volta rientrati a casa, di non deludere le loro aspettative, più o meno esplicite: continuare a fare qualcosa, a essere la loro voce. Perché sono persone che “hanno un gran bisogno di essere viste”, dice ancora Alessandra. “Perciò c’è ovunque la bandiera palestinese, hanno bisogno di essere riconosciute, sia legalmente a livello internazionale, sia a livello individuale”. Da tempo mancavano i pellegrini; gli scambi di questi giorni sono un canale per pregustare, si spera, la pace e la fratellanza. 

A Taybeh, l’unico villaggio della Cisgiordania interamente cristiano, si è ritrovato un gruppo di giovani che ha prestato aiuto agli anziani, ha ripulito ambienti comuni: un servizio non eclatante, fatto di piccole cose, per lo più di ascolto, di presenza, senza piani prestabiliti. Un affaccio su una porzione di mondo che spalanca domande, ne apre a centinaia. Ancora interpella, per esempio, il racconto di Bar, un ex soldato attivista di Breaking the Silence, organizzazione di ex militari delle Forze di Difesa Israeliane che si batte contro l’occupazione dei territori palestinesi.

L’approdo degli ultimi giorni è stato a Gerusalemme nel Patriarcato Latino per l’incontro con il cardinale Pierbattista Pizzaballa. Con lui, curioso di conoscere i luoghi visitati e le testimonianze raccolte, un ulteriore momento a suggellare la conoscenza di questa realtà così complessa e martoriata. Anche quando taceranno le armi, la pace sarà un processo lungo, ha detto loro il patriarca. La colonizzazione è un processo di disumanizzazione del nemico frutto di un certo uso del linguaggio, di una ‘narrativa’. Bisogna studiare, ed elaborare narrative forti e non parole vuote. Le stesse parole dialogo, pace, riconciliazione rischiano di svuotarsi di senso. Secondo Pizzaballa, giustizia e verità sono inscindibili. Fondamentale, quindi, un percorso di verità, di giustizia e di perdono. Vanno insieme. Il dialogo vero è quello che partirà dal basso tra gente di buona volontà.

[Foto: Artigiani della Pace]