Sudan: bombardamenti indiscriminati colpiscono ospedali e campi profughi del nord Darfur
Pazienti e personale del Southern Hospital di Al-Fashir in Darfur, nella zona nord occidentale del Sudan, sono stati feriti e colpiti a morte dalle Forze di Supporto Rapido (RSF). Le forze ribelli hanno attaccato anche il vicino campo per sfollati di Abu Shouk uccidendo anche diversi bambini. I bombardamenti proseguono indiscriminati sui quartieri residenziali della città, il campo è sotto il fuoco da diverse settimane, provocando un crescente numero di morti e feriti.
Secondo quanto riportato da fonti locali - rilanciate dall'agenzia vaticana Fides - tra i feriti del Southern Hospital anche lo stesso Direttore e il direttore del Pronto soccorso. Da sempre l’ospedale, data la sua rilevanza logistica, è teatro di molteplici attacchi da parte delle parti in guerra. Nel corso della settimana passata c’erano già stati diversi tentativi di evacuazione dei pazienti dal Southern Hospital a causa degli scontri tra RSF e le forze armate sudanesi (SAF) nell'area. Giovedì 13 giugno più di 30 missili hanno colpito la capitale. Gravemente danneggiata anche la moschea El Faki Mohamed Saeed, a est dell'ospedale Igra.
El Fasher, che ospita circa 1,5 milioni di persone, tra cui circa 800 mila sfollati, è l'ultima delle cinque capitali dello stato del Darfur a non essere sotto il controllo delle RSF. I residenti temono che il pieno controllo della città da parte di RSF ribelli possa innescare un conflitto tra le tribù arabe che sostengono RSF e la tribù Zaghawa, da cui provengono la maggior parte dei combattenti delle forze ribelli del Nord Darfur.
I leader Zaghawa avrebbero contattato il presidente ciadiano Mahamet Deby, anche lui Zaghawa, chiedendogli di intervenire per evitare un “catastrofico bagno di sangue” nella zona.
La comunità internazionale ha lanciato più volte appelli alle parti in conflitto affinché allentassero la violenza e ripristinassero il libero accesso umanitario, ma senza alcun risultato.
I combattimenti hanno portato a sfollamenti di massa. Si stima che circa l’85% della popolazione abbia lasciato i quartieri settentrionali, dirigendosi verso aree più sicure nel sud di El Fasher o fuggendo a Mellit, 60 km dalla capitale, o addirittura in Libia.
Le condizioni di sicurezza hanno cominciato a deteriorarsi rapidamente a El Fasher alla fine di ottobre 2023, quando le RSF hanno intensificato la pressione sulle altre quattro capitali dello stato del Darfur. Le RSF nell'est e nel nord-est di El Fasher hanno iniziato a seminare il caos, fino a quando la situazione è esplosa.
Sudan: non c'è più tempo da perdere
Alla situazione in Sudan dedica il suo daily focus anche l'ISPI. Il Paese è sull’orlo di una carestia epocale, sottolinea, mentre le Rsf incombono alle porte di El Fasher, col rischio che in Darfur la storia si ripeta.
A oltre un anno dall’inizio del conflitto, il Sudan è preda di una tragedia umanitaria causata, come ha dichiarato di recente l’inviato Onu Martin Griffiths “da una guerra di ego, tra due uomini pronti a sacrificare il proprio paese. Le violenze tra i militari dell’esercito sudanese (Saf), guidate dal generale Abdel Fattah Al-Burhan, e le Forze di Supporto Rapido (Rsf) del generale Hamdane Dagalo (detto Hemedti) hanno ridotto il paese sull’orlo del baratro, scatenando quella che secondo gli osservatori potrebbe diventare la peggior carestia degli ultimi decenni. Dall’inizio delle ostilità, nell’aprile 2023, almeno 14mila persone hanno perso la vita, oltre 10mila sono fuggite dalle proprie case e nella regione occidentale del Darfur sono in corso violenze sistematiche dietro cui gli osservatori Onu, allarmati, riconoscono elementi di pulizia etnica e genocidio. Con gran parte dell’attenzione mondiale focalizzata sulla Striscia di Gaza, teatro di un’altra drammatica carestia portata in dote dalla guerra, il Sudan sta rapidamente scivolando verso un disastro umanitario di proporzioni storiche, nel silenzio e nell’indifferenza.
Silenzi, accuse e doppi standard
“Questa è la più grande crisi umanitaria sulla faccia del pianeta. Eppure, in qualche modo, la situazione rischia di peggiorare” ha avvertito l’ambasciatrice americana alle Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield. Che il suo allarme, affidato ad un editoriale pubblicato dal New York Times sia caduto nel vuoto è un’altra dimostrazione della crisi di legittimità degli Usa sullo scenario internazionale: gli Stati Uniti si trovano ad affrontare accuse di ipocrisia da parte di molti paesi, in particolare del Sud del mondo, secondo cui Washington chiede la fine delle forniture di armi alle parti coinvolte nel conflitto in Sudan, mentre a sua volta continua a rifornire Israele di armi per la sua offensiva su Gaza. Così in Sudan, mentre gli aiuti umanitari subiscono continui ritardi, le parti in guerra non hanno problemi a reperire armi: le Saf, tra gli altri, dalla Russia e dall'Iran, le Rsf in particolare dagli Emirati Arabi Uniti (EAU) , alleati di Washington. Interpellata sulla questione, Thomas-Greenfield ha affermato che Washington si è “impegnata” con gli Emirati Arabi Uniti. Ma un resoconto ufficiale dell’incontro tra Joe Biden e lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan al vertice del G7 in Italia non menziona il Sudan.
Chi sostiene le Rsf?
Non solo gli Emirati risultano coinvolti nel conflitto, ma secondo accuse ritenute credibili dall’Onu figurano come l’attore esterno più coinvolto nella guerra. Abu Dhabi è il principale importatore di oro dal Sudan e ha piani multimiliardari per sviluppare porti lungo la costa sudanese del Mar Rosso. Sostenendo le Rsf e il loro leader Hemedti, un ex comandante della milizia dei Janjaweed e legami di lunga data con il paese del Golfo, gli Emirati avrebbero direttamente sabotato la transizione democratica seguita alla cacciata, nel 2019, dell’allora Omar al-Bashir dopo 30 anni di dittatura. Secondo le accuse di funzionari e diplomatici riportate in diversi report dell’Onu, gli Emirati forniscono armi e droni e curano i combattenti feriti, trasportando i casi più gravi in aereo in alcuni dei loro ospedali militari nel vicino Ciad. Il governo dell’emirato nega ogni addebito e insiste sul fatto che le sue operazioni al confine con il Sudan siano puramente umanitarie. Tuttavia, senza il sostegno diretto di Abu Dhabi – riporta il Guardian – le Rsf non sarebbero state in grado di avanzare così rapidamente, arrivando a controllare quasi tutte le province del Darfur.
Darfur: tornano i diavoli?
Nell’assenza di negoziati di pace, l’unica speranza di una soluzione politica al conflitto arriva da Addis Abeba dove, il mese scorso, l’ex premier Abdallah Hamdok è stato eletto alla guida di una coalizione di partiti e movimenti della società civile per mettere fine alla guerra nel paese. Il suo primo atto, in qualità di leader del coordinamento delle forze civili e democratiche del Sudan (Taqaddum), è stato firmare una dichiarazione chiede la fine della guerra e la creazione di uno stato federale laico che garantisca il diritto all'autodeterminazione ai popoli del Sudan. Hamdok ha invitato entrambe le parti in conflitto “ad aprire corridoi sicuri per la consegna di aiuti umanitari e ad affrontare l’incombente carestia che sta minacciando milioni di persone”. Le sue parole dalla capitale etiope arrivano mentre El Fasher, capoluogo del Nord Darfur, affronta il secondo mese sotto assedio da parte delle Rsf. Nella città, unico capoluogo della regione ancora non controllato dalle Forze di supporto rapido, si stima che abbiano cercato riparo circa un milione di sfollati. Nessuno potrà garantire per loro se la città cadrà nelle mani delle milizie, in gran parte reclutate tra le fila dei Janjaweed i ‘diavoli a cavallo’ responsabili a fianco del governo di Khartoum nel genocidio idelle popolazioni non arabe e comandati – allora come oggi – dal generale Mohamed Hamdan “Hemedti” Dagalo.
Il commento di Sara De Simone, Associate Research Fellow, Osservatorio Africa ISPI
“Se fino a poco tempo fa di fronte alla crisi sudanese la comunità internazionale non aveva alcun interlocutore credibile, la creazione del Coordinamento delle forze democratiche, noto anche come Taqaddum, un ombrello della società civile sudanese guidato dall’ex premier Abdallah Hamdok ha cambiato questo stato di cose. Eppure il movimento non sta ricevendo la giusta attenzione e sostegno da parte degli attori esterni e dei donatori occidentali. Finora a livello regionale e internazionale è prevalso un approccio realista nei confronti del conflitto che favorisce il confronto con le forze armate sul campo. L’obiettivo, comprensibile, è quello di raggiungere un cessate il fuoco che faccia da apripista per una soluzione politica negoziata. Ma è una strategia che purtroppo non ha portato nessun risultato”.
[Photo Credits: ISPI]